Era il 1° dicembre del 1955, quando Rosa Parks, sarta in un grande magazzino, terminata la sua giornata lavorativa, prende l’autobus 2857, per tornare a casa. Si siede in una fila centrale. Dopo poche fermate sale un passeggero bianco, il conducente le chiede di alzarsi per lasciargli il posto, come impone una legge cittadina di Montgomery in Alabama: i neri si siedono dietro, i bianchi davanti, i posti centrali sono misti e si possono usare solo se gli altri sono occupati, ma la precedenza spetta sempre ai bianchi. Rosa Parks rifiuta di alzarsi e viene arrestata, accusata di aver violato le leggi sulla segregazione. Le “leggi di Jim Crow” permettevano ai neri solo determinati lavori e con salari inferiori, escludendoli da molte professioni e scuole e dal diritto di voto.
Nel 1955 erano passati circa trecento cinquanta anni da quando erano arrivati i primi schiavi in Virginia, duecento cinquanta circa da quando venne emanato “il codice degli schiavi” che codificava la condizione di schiavo come proprietà del padrone, condizione quella, caratterizzata quotidianamente dalla brutalità dei padroni, dalle frustate, dalle mutilazioni, dalle marchiature a fuoco, dalle esecuzioni, dagli stupri. Nel 1955, erano passati cento cinquanta anni dall’abolizione della tratta degli schiavi e cento dall’abolizione della schiavitù con il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti emanata alla fine della guerra civile. La popolazione nera in quel momento era composta da circa 4 milioni di persone. Ma l’abolizione effettiva della schiavitù rimase sulla carta, un sistema giudiziario viziato da pregiudizi, leggi contro l’alfabetizzazione dei neri, che ne impediva l’emancipazione intellettuale, contribuirono a mantenere un sistema di discriminazione e violenza indicibile gratuita anche per le impunite azioni del Ku Klux Klan.
Era il 1963, quando davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, per il lavoro e la libertà dei neri d’America al canto di “We shall overcome” vibrarono alte le parole di Martin Luther King: “I have a dream, i have a dream”, “…io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene. Io ho un sogno oggi!”. Martin Luther King venne assassinato nel 1968.
Il 4 novembre del 2008, quel sogno sembrò concretizzarsi. “Jes we can” affermava Barack Obama senatore democratico dell’Illinois, quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti “Jes we can”. Si, noi possiamo! E in quelle tre semplici parole c’era tutto, tutta la storia dei neri d’America dal 1619 al 2008, secoli di violenze, di brutali soprusi, di sopraffazioni, di omicidi impuniti, di giustizia negata, ma ora “Jes we can”.
Cosa è successo dopo in quel melting pot che è la società degli Stati Uniti d’America? E’ successo che ha vinto chi è riuscito a rappresentare l’insicurezza, quella del lavoro, dell’identità, a rappresentare chi si è sentito schiacciato dalla globalizzazione neoliberale, chi ha messo nel programma, si, posti di lavoro, ma come centralità assoluta, il controllo stretto dell’immigrazione e la costruzione di muri sul confine messicano “e nessuno meglio di me sa costruirli” è stato lo slogan oltre “America first”. I muri, quelli che danno l’idea di essere protetti ed al sicuro da tutto ciò che è esterno e perciò diverso e pericoloso e perché bisogna anche preservare la propria fede dal pericolo straniero e dall’indifferenza progressista.
Oggi stanno accadendo episodi, che forse non dovremmo più definire tali, perché negli ultimi anni troppo frequenti, che mettono in evidenza quanto ancora presenti siano sentimenti, espressi o no, portati alla coscienza o meno, discriminanti e discriminatori, che trovano il loro brodo di coltura in un clima populista, un clima che non li respinge ed emargina, ma li alimenta.
Ed allora ci si sente disorientati nel mettere insieme le due immagini dell’America di questi giorni: quella di George Floyd schiacciato da un agente, che implora: “I can’t breathe”, “I can’t breathe”, che ha acceso come una miccia i disordini in varie città americane facendo riesplodere problemi mai risolti, intrecciando disuguaglianze sociali e disoccupazione, peggiorate con il covid-19, e quella della partenza da Cape Canaveral della missione SpaceX, e nello spaesamento, tornano alla mente le parole pronunciate da Neil Armstrong nel compiere il primo passo sulla superficie lunare: “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”.
C’è un passo, più difficile forse, da compiere qui e adesso, sulla terra, senza arrivare sulla superficie lunare, che sarebbe davvero un grande passo di umanità e per l’umanità, ma dal 1969 quel passo non è stato ancora compiuto. Stiamo aspettando.
(mcp)



