La storia inizia con un reportage fuori sede di Filippo Fontana, zoologo e conduttore televisivo, un’autorità nel suo mondo, un piccolo uomo pieno di boria ed egoismo nella realtà. Con una piccola troupe televisiva, Fontana si reca in un’isola delle Canarie per fare un servizio su una rara popolazione di cicogne.
Questa storia costituisce il soggetto cinematografico di un film di Giulio Manfredonia “E’ già Ieri”. In questa stupenda isola Filippo Fontana, un bravissimo Antonio Albanese, invece di godersi il magnifico scenario della natura e la bellezza che lo circonda, reitera il suo cinico approccio alla vita, carico di un maschilismo edonista, che lo spinge ad una continua e frenetica ricerca di conquiste femminili, e di assoluto disprezzo per il prossimo. L’isola in verità è più perfida di Filippo e presto si vendicherà in maniera furente verso quest’uomo che la ignora, intrappolandolo in un loop temporale senza fine.
Ultimato il servizio, una brutta mareggiata gli impedisce di ripartire, costringendolo così a fermarsi sull’isola per un’altra notte. Il giorno dopo si risveglierà intrappolato in una serie ininterrotta di déjà vu: ciò che aveva vissuto il giorno prima si ripete e si ripeterà di nuovo nei giorni seguenti, tutti datati 13 agosto.
Filippo tenterà in ogni modo di ripristinare l’ordine temporale con vari stratagemmi compreso quello di restare sveglio la notte, o di addormentarsi in posti diversi, ma fintanto che resterà cinico, arrogante e noncurante delle conseguenze delle sue azioni, non riuscirà ad evadere dal loop che lo imprigiona. Solo quando inizierà a guardare con altri occhi il mondo che lo circonda e a superare la barriera egocentrica, che è il vero male che lo ingabbia, si ristabilirà l’ordine del tempo. Solo quando riuscirà, scoprendosi innamorato, ad aprirsi sinceramente con la donna che fino al giorno prima aveva tentato maldestramente di sedurre e riuscirà a vedere la bellezza che lo circonda, si interromperà il maleficio.
Una favola forse, anche un po’ moralista, quella che ci racconta Manfredonia nel film, ma quanta realtà contiene la vicenda vissuta da Filippo, che ci riguarda non solo come individui, ma anche come collettività e come società.
Un’analisi attenta mette in evidenza il filo rosso che lega gli eventi della nostra storia politica degli ultimi anni e forse anche di molti lustri indietro: la politica e le sue strutture hanno reiterato e continuano a farlo, una modalità che le costringe in un loop dove tutto si ripete senza possibilità di veri cambiamenti. Un modo di amministrare il Paese ed i relativi processi decisionali, che si perpetua, nonostante l’evidente inattualità ed inefficacia.
Ogni legislatura, ogni governo, ogni crisi, seguono un tracciato percorso innumerevoli volte, tutto avviene come in un dejà vu: i partiti occupano i CDA delle aziende pubbliche senza verificare le competenze dei nominati, i sindacati si propongono come controparte (a prescindere) e sono più ostili verso i governi riformatori, vissuti come pericolo per la sopravvivenza della loro funzione di intermediazione, i poteri della Stato (quelli di Montesquieu) si ingarbugliano tra loro cercando di prevalere gli uni sugli altri. Del proporzionale e del maggioritario ne sentiamo parlare da quando eravamo bambini, tanti anni fa! Un vero circuito chiuso. Prima il proporzionale puro e guai a toccarlo (basta ricordare le battaglie contro La “legge truffa” del 1953, così definita perché introduceva nel sistema elettorale un premio di maggioranza, subito abrogata per sollevazione popolare), poi il semi proporzionale, poi il semi maggioritario, poi il maggioritario e oggi il proporzionale? Il debito pubblico che tutti vorrebbero ridurre ma che continua a crescere ad ogni governo in modo preoccupante, il conflitto di interessi nell’ambito delle istituzioni e dell’informazione, ferita aperta questa, che tutte le forze politiche dicono di voler sanare, ma che sempre si ripropone, problemi anche questi inviluppati in un circolo vizioso.
Sono poche le forze politiche consapevoli di quanto il continuo ripetersi di immutati percorsi di gestione del sistema Paese stia minando in profondità l’ordine democratico e sono pochi gli uomini politici, ad avere la capacità e la voglia di innescare un vero processo di cambiamento che interrompa la routine perversa che ci fa vagare come in un labirinto nell’impossibilità di trovare l’uscita. Il problema, non è l’opportunismo o la malafede di uomini volti ad un interesse di parte, ma una carenza di visione e una assoluta incapacità di guardare oltre i processi di gestione basati su soluzioni disfunzionali già in atto e già sperimentate. Solo interrompendo tale ripetitività si potrà sperare nel cambiamento, perché solo la rottura dell’equilibrio precedente aprirà nuove prospettive, consentendo nuove visioni e perciò nuovi progetti.
Dice Edward De Bono, teorico del pensiero laterale: “Quando si affronta un problema, è prassi comune delimitarlo entro una determinata inquadratura e cercarne la soluzione all’interno di essa. Si accetta come un dato dimostrato che una certa linea rappresenti i confini del problema, ed è entro questi confini che il pensiero verticale ricerca la soluzione. Molto spesso però questi confini non esistono nella realtà e la soluzione può trovarsi al di fuori di essi”. Molto spesso dinanzi ad un problema, o a quello che chiamiamo “un momento di crisi” il pensiero verticale determina una specie di “loop” mentale, un vero e proprio circolo vizioso caratterizzato da un pensiero statico, ripetitivo, uguale a se stesso, che continua a vedere e affrontare la situazione da un unico punto di vista. E’ allora che il pensiero lateraleassume la funzione di potenziale “scardinatore” delle convinzioni e delle logiche scontate, dei tracciati già percorsi infinità di volte, che possono rendere difficile se non impossibile, sia per le persone che per la politica trovare una soluzione o un cambio di prospettiva per affrontare i problemi sul tavolo.
Pensare al di fuori degli schemi in politica significa rompere la ritualità dei processi decisionali, anche mettendo in discussione istituti e poteri che non danno valore aggiunto (Siamo sicuri che il CNEL sia indispensabile?), dare il giusto ruolo ai poteri intermedi perché non confliggano tra di loro e soprattutto non vadano a proporsi come cogestori dell’esecutivo (il sindacato non dovrebbe mettersi al passo coi tempi e abbandonare la lotta di classe?), riconfigurare le priorità nei programmi di riforma strutturale (l’istruzione e l’informazione non dovrebbero essere al primo posto?), mettere in discussione (con coraggio) istituti previsti dalla carta costituzionale, ma ormai obsoleti (il bicameralismo perfetto è veramente necessario?), mettere in discussione il ruolo e la struttura di “satrapati” istituzionali come le Regioni e pensare piuttosto ad un modello di Stato locale basato più sui centri di programmazione e di spesa utili ed efficienti che non sulla prossimità geografica.
Un pensiero politico laterale, per dirla alla De Bono, dovrebbe fare il contrario di quello che le forze politiche continuano a fare da anni: ricerca affannosa del consenso, inseguire gli umori ventrali del “popolo”, esporre la vetrina dei programmi elettorali come un catalogo interattivo, sorvolare sui veri problemi strutturali del Paese per evitare la conflittualità generata dai poteri che verrebbero toccati dal cambiamento.
Sarebbero necessari invece, una politica nuova e uomini capaci di interpretarla, una politica che dovrebbe avere il coraggio di progettare per il bene del paese senza pensare ad un immediato ritorno di consenso, anche rischiando di far arrabbiare tanti, lavorare senza guardare i sondaggi farlocchi che i media propinano quotidianamente, anche assumendo la responsabilità di mettere in discussione apparati ed istituti dell’attuale sistema, che sappiamo essere molto reattivi e poco propensi ad ogni forma di cambiamento.
Questo è quello che si dovrebbe fare per rinnovare il Paese, ma non è affatto detto che si riesca, anzi! Chi si cimenta in questa impresa sa che i tentativi di tagliare le gambe ad ogni innovazione seria sono e saranno sempre molti e pesanti. La grave sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 insegna che la strada è in salita, ma se abbiamo a cuore il destino di questo Paese, perché non sia sempre l’ultimo nella graduatoria europea, dobbiamo provare e provare ancora, senza mai cedere allo scoramento nella assoluta convinzione che il “tempo è galantuomo”.
(MV&MCP)