Ecco perché la nostra politica non ha futuro, e nemmeno noi
Se provate a leggere le dichiarazioni di #BeppeSala sulla necessità di tornare a lavorare negli uffici per salvare il lavoro dell’indotto del pendolarismo (bar, ristoranti, e altro) capirete che non c’è chance che tenga, Covid19 che possa. Sala parla di un indotto che lavora soprattutto per via di chi pranza fuori casa, fa riunioni nelle salette dei Caffé, organizza colazioni e pranzi di lavoro, fa meeting, e così andare. La Milano da bere. Capirete che la politica ha smesso di fare il suo mestiere nel suo senso migliore.
E’ il calice amaro, quello che ci si porge da più parti, di una politica che non sa più dare priorità alla riduzione dei danni climatici, alla tutela dal malessere da stress lavoro correlato, alle visioni taylostiche del lavoro. Una politica badata sul controllo, un mondo del lavoro centrato sulla sorveglianza. Un “fine pena mai” del pensiero di tardo 800 e 900.
Se volessimo essere seri, non solo utilizzare Greta Thumberg quando ci è comodo, dovremmo cominciare a capire che questo pianeta, e questi uomini e queste donne, bambini e bambine, non ce la fanno più a star dentro questo sistema, che procrastina schiavitù e lavoro nero, e insegnamenti per pochi. Che non vuole abbattere nessun digital divide, ma solo concentrarsi sul massimo profitto col minore sforzo.
A cosa serve, a questa politica del meno peggio, ”meglio pochi soldi e subito”, una riflessione profonda sui messaggi e non sui media? Superflua, non porta voti né sollievo immediato, richiede il superamento della generazione del no alla politica e il ritorno alla politica vera, e questo è troppo per essa.
Se davvero volessimo pensare a quello che potremmo ottenere se solo ci sforzassimo di avere una visione, dovremmo tener conto di fattori scomodi, e persino troppo democratici.
Alcuni compiti starebbero alla politica, in una equazione che possa dirsi risolta:
- Lavoro a distanza: riduzione del traffico, restituzione del lavoro al concetto di responsabilità individuale, alfabetizzazione digitale diffusa, dotazione informatica delle famiglie, educazione alla conciliazione fra vita e lavoro, rispetto dei ritmi individuali, accesso ad altre modalità di convivenza virtuose
- Remotizzazione dei servizi al cittadino: ovvero snellimento dei dinosauri dell’amministrazione, e loro restituzione, con maggior tempo disponibile, al compito di un’etica al servizio del cittadino, e del dialogo con esso
- eCommerce come occasione di riduzione delle reti distributive, decremento del traffico commerciale, ampliamento delle reti di consegna locale, sviluppo di una cultura dei negozi di prossimità in una nuova luce, quella della convivenza diretta, corporea, allocata nello spazio
- Comunità educante e scuola come centri educativi veri, dialogati con territorio e famiglie: ovvero ripensare le librerie, i cinema, i teatri, i musei, i parchi, come luoghi dedicati al sapere e all’apprendere, farli divenire centro di momenti di apprendimento sociale diffuso, questo sì in presenza, laboratori pulsanti di un sapere costruito insieme, civico e democratico. Quanto bene potrebbero lavorare anche gli insegnanti se gestissero online le parti di lavoro che possono essere comprese nel dialogo virtuale, con in più l’universo mondo di ausili video e audio che la rete consente di usare, e la possibilità di programmare l’in presenza nelle scuole, nei musei, nei teatri, nelle imprese, nei laboratori e così via…
E sono solo alcuni dei punti, che però contengono un rischio vero: avere infine una società abilitata all’accesso e al futuro. Una società democratica.
In questa prospettiva etica avremmo:
- Le realtà di commercio e promozione culturale pensate per le persone e capaci di produrre sulla base di un’offerta anche locale
- La scomparsa delle lentezze delle burocrazie
- Persone che lavorano non costrette dal controllo ma sostenute da un “patto” per il lavoro
- La scomparsa tendenziale del lavoro nero
- La restituzione della città alla sua missione culturale, sociale e produttiva finalmente depurata dai costi del pendolarismo e dei tempi improduttivi imposti dagli spostamenti
- La creazione di una comunità educante inclusiva e arricchita dai metodi e dai contenuti di tutti
- Il rispetto della disabilità e delle lungo degenze finalmente dotate di reti di servizio e incontro
- Donne e uomini non asserviti al lavoro e alle organizzazioni ma capaci pensarsi come portatori di un progetto produttivo sia personale che sociale.
Avremmo meno capi e capetti, realtà di commercio finalmente a misura di quartiere, meno luoghi di alienazione come le grandi burocrazie e i grandi centri commerciali.
Potremmo chiedere che i rider siano figure equamente retribuite e tutelate, e che finalmente si promuovano i libri per i loro contenuti e non per i loro contenitori.
Ho i brividi ogni volta che sento dire: compra un libro, salviamo le librerie, salviamo le città.Come se non fosse invece utile dire: promuoviamo la diffusione di questi autori, di queste editrici, di queste librerie che organizzano incontri, attività e promuovono metodi.
Mi fermo qui, le cose da dire sarebbero tantissime. So per certo che la politica non farà nulla di quello che dovrebbe fare. Riapriremo gli uffici, le scuole e le discoteche.
Non penseremo a luoghi vivi, a cittadinanze attive, a lavoratori più liberi, a persone più tutelate, a ritmi di lavoro più personali, a nuove economie etiche.
Penseremo a riaprire le attività com’erano, a riportare le città nel caos in cui versavano e le persone alla sudditanza che tutto questo promuove e governa.
Con buona pace dei sindacati, degli insegnanti, dei politicanti, e di chi da tutto questo trae profitto. Con buona pace delle intolleranze e degli autoritarismi. A cui daremo ogni tanto il contentino di un diritto civile di cui saremo almeno capaci di parlare.
Torneremo all’esclusione, alla stratificazione per classi, ai ricchi e ai poveri, e non parliamo di un gruppo musicale.
Per sentire ”le voci del mondo” bisogna essere innamorati. E questa politica tutto è meno che amore.
(NG e RV)