Pubblichiamo, con il gentile assenso dell’autore, l’articolo di Ciro Cafiero Uno smart working “Covid free”, uscito anche sulla rivista @Lab-Oratoria *
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Lo smart working, con il Covid, è diventato un mantra. Sulla bocca del legislatore, dei sociologi, degli economisti, dei lavoratori. Complice di questo successo è stata una straordinaria produzione normativa nel breve volgere di pochi mesi.
Lo smart working è passato dai sette timidi e sparuti articoli della legge n. 81 del 2017 a fare capolino nei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1, del 4 e dell’8 marzo, nel Protocollo sulla Sicurezza sui luoghi di lavoro tra Governo e Parti Sociali del 14 marzo 2020, poi rinnovato il 24 aprile ed, infine, nell’art. 90 del decreto legge n. 34 del 2020, c.d. Decreto Rilancio, convertito in legge.
Si è trattato, tuttavia, di uno smart working di tipo emergenziale, con peculiarità inedite rispetto a quello ante Covid, che, in fase di collaudo, ha fatto registrare pregi e difetti.
I pregi sono stati sicuramente importanti.
Un potere retributivo più ampio perché molti lavoratori hanno abbandonato le costose città del lavoro per rifugiarsi nelle più economiche città di provenienza, anche in quelle di mare o del Sud (c.d. south working) e, dunque, abbattuto costi di locazione, di trasporto e, più in generale, di consumo.
Un deterrente all’isolamento perché lo smart working è stato anche il ponte verso l’altro, per dirla con Lèvinas. Il lavoro, in altri termini, grazie ad esso, non ha perso quel significato di “conseguire quel che si desidera” suggerito dalla sua radice sanscrita “labh-“ (a sua volta dalla più antica radice “rabh”).
Un toccasana per l’ambiente che, in conseguenza della ridotta emissione di Co2, è tornato a vecchi splendori. L’ecologia integrale di Francesco ci ricorda che Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura mai.
Con un strano gioco a somma zero rispetto ai pregi, anche i difetti dell’ smart working sono stati importanti.
Il legislatore è intervenuto a gamba tesa sulla materia e sottratto la sua disciplina all’ accordo non solo individuale ma anche sindacale.
I lavoratori hanno utilizzato strumentazione di proprietà inidonea allo scopo. Personal computer obsoleti, privi di sistema di sicurezza informatici e a tutela della salute dell’utente. Scrivanie e sedie poco ergonomiche, illuminazioni scarse.
Gli ambienti di lavoro non sono stati all’altezza: difficoltà nella gestione dei figli (ingabbiati a casa in conseguenza del lockdown scolastico) e familiari non autosufficienti, spazi stretti e rumorosi, carenza di servizi nei circondario delle abitazioni, soprattutto di quelle nelle periferie delle città.
E così, la finalità di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, nel cui segno è nata lo smart working è rimasta schiacciata sotto il peso di quella di tipo emergenziale: il famoso “restare a casa” nell’ottica del contenimento del contagio.
Una situazione che, nel tempo, è in grado di sciupare la creatività dei lavoratori e dunque la loro produttività contro i risultati che, in tempi ordinari, lo smart working mette a segno.
Ed allora, occorre interrogarsi su quali sono le soluzioni per uno smart working capace di fronteggiare, in futuro, momenti di emergenza, come quello vissuto, senza tradire le sue originarie virtù.
La strategia è su almeno quattro mosse.
La prima è ritornare alla cultura del confronto e quindi iscrivere lo smart working nell’ambito della contrattazione tra imprenditore, sindacato e lavoratori. Si tratta del viatico per la loro partecipazione alla gestione dell’impresa, secondo l’art. 46 della Costituzione.
Ed infatti, smart working vuol dire responsabilizzazione dell’impresa e del lavoratore verso due obiettivi: quello della produttività della prima e del benessere dei secondi E dunque realizzare le idee di voice e loyality di Hirschmann.
La seconda mossa impone investimenti in abitazioni a misura delle nuove esigenze, che si prestano ad essere centri della vita privata e della vita lavorativa, e dunque anzitutto più ampie e sicure.
Ma anche di ripensare il welfare alla luce delle situazioni di bisogno familiare, senza necessariamente un ritorno al paternalismo di Alessandro Rossi. Perché il benessere dello smart worker dipenderà da quanto quei bisogni saranno soddisfatti.
La terza mossa chiama le imprese alla conversione di parte delle strutture in poli di creatività, per sessione plenarie, riunioni di gruppo, progetti pilota. Contro la possibile sensazione di isolamento dello smart worker.
L’ultima mossa ha un respiro più ampio e chiede uno sguardo diverso sulla città. Se il lavoro invade i “centri abitati”, il modello di riferimento deve essere quello della “città del lavoro”.
Strade più sicure, servizi più efficienti e veloci e, dunque, più in generale, riconversione delle attività economiche cittadine in favore di un’utenza con due anime: lavorativa e familiare. Ad esempio, il ristorante del “sabato sera” dovrà essere pronto a garantire le consegne settimanali a domicilio a pranzo e cena, allo stesso modo le lavanderie, le palestre dovranno osservare orari compatibili con quelli lavorativi. Insomma, i quartieri dovranno convertirsi in ecosistemi funzionali all’attività di impresa.
In definitiva, lo smart working resta un’opportunità per il Paese, ma chiede, dinanzi alla transizione figlia del Covid19, una corretta governance. Si tratta, come sempre, di separare il grano dalla zizzania.
*Rivista dei direttori del personale del Lazio @aidpLazio.