Su Roma è già stato detto e scritto tutto quello che può servire a mettere a fuoco una idea per la sua rinascita, una Visione del suo futuro, come alcuni la definiscono, e anche molti punti programmatici che potrebbero comporre un progetto di città che manca da decenni.
Più che ripetere quei punti, magari selezionandone alcuni e disponendoli secondo un certo ordine di priorità, a una forza politica che voglia proporre ai cittadini il programma per un nuovo governo della città, che affondi le radici nelle esigenze espresse dalle componenti economiche, sociali e culturali, più vive della società romana, basterebbe mettere insieme le quattro o cinque elaborazioni più convincenti e partire da quelle per intrecciare un dialogo e un confronto con le proprie elaborazioni, proponendosi di costruire sul campo una Visione unitaria e una nuova rappresentanza politica da proporre a tutti i romani. Italia Viva è attrezzata per questa operazione politica, che può svolgere a partire dal lavoro originale, approfondito e prezioso, svolto dai suoi tavoli tematici.
Ma c’è qualcosa di fondamentale che non è stata ancora prevista in questo lavorio che sta impegnando, da mesi, chi vuole costruire le premesse programmatiche di una città migliore.
Oggi, non domani, dobbiamo dare risposta all’interrogativo su quale impatto dovrà avere su Roma l’attuazione del Recovery Plan. Ho usato il verbo “dovere”, perché la coincidenza tra l’avvio di quel piano, nazionale ed europeo, e la nascita di un nuovo governo capitolino non resti una opportunità inattuata, ma sia l’occasione per non mancare la rinascita di Roma, non solo col superamento di oltre dieci anni di immobilismo, ma col cambiamento della Capitale all’unisono col cambiamento del Paese.
Perché questo possa realizzarsi serve, oggi, non a cose fatte, che i Comuni, soprattutto le Aree Metropolitane, in particolare Roma per la sua unicità di Capitale, siano coinvolti nelle scelte strategiche e nell’elaborazione progettuale nazionale. Anche in considerazione del fatto che tanta parte dell’attuazione dei nuovi progetti passerà attraverso l’operatività degli Enti Locali.
Questo coinvolgimento, sicuramente complesso e laborioso, farà recuperare tempo prezioso nella fase attuativa, che sarà più spedita se opererà in un ambiente politico e sociale consapevole dei cambiamenti precedentemente condivisi.
Inoltre questo coinvolgimento, a monte, metterà in luce la qualità delle riforme ancora da fare, normative e procedurali, per definire, nel concreto, i nuovi, indispensabili assetti istituzionali e operativi a livello territoriale. A partire da quelli di Roma Capitale. Dalla definizione, oggi, non a cose fatte, del compito da svolgere, sarà più chiara l’attribuzione delle competenze nazionali e locali, la riforma delle norme, delle procedure e della burocrazia, la suddivisione delle risorse.
I rischi da evitare sono, innanzitutto, due, che Roma e il Paese condividono.
Il primo è di disperdere le ingenti risorse europee in centinaia di interventi, tutti plausibili e necessari da anni, ma che trasformerebbero un piano di ripresa strategica dell’Italia in un patchwork mediocre. Ci aiutano a non cadere in questo errore le norme europee sull’attuazione del Recovery Plan, che tuttavia sono ancora in fase di completamento. C’è sempre il rischio che ispirazioni populiste riemergano anche in sede di governo o che, in futuro, prendano il sopravvento visioni sovraniste e localistiche per matterebbero l’Italia su un binario morto a livello europeo.
Le risorse europee vanno concentrate su tre o quattro grandi assi di cambiamento strategico, che consentano all’Italia di colmare il gap economico e sociale col resto d’Europa e coi paesi suoi concorrenti nel mondo. Progetti che abbiano una ricaduta positiva a breve – medio periodo e sui quali la convergenza con gli Enti Locali sarà essenziale.
Quali assi? Anche su questo molto è stato detto e scritto. Ma occorre fare una premessa.
L’Italia è uno dei paesi con maggior debito pubblico in Europa e la crisi economica dovuta alla pandemia ha accentuato questo problema. Le stesse risorse del Recovery Plan, bene accette anche perché da restituire a lunghissima scadenza e a tasso d’interesse irrisorio, contribuiscono tuttavia ad aumentare questo debito. Se non vogliamo semplicemente riempirci la bocca di frasi solidaristiche nei confronti delle generazioni future, che si troverebbero a pagare questo debito nei prossimi venti anni, dobbiamo impegnare le risorse di oggi in progetti strutturali che abbiano, oltre che ricadute a breve – medio termine sul miglioramento delle condizioni di vita e ambientali, anche ricadute economiche positive nel lungo periodo.
Le risorse economiche non piovono da chissà dove, ma si producono, come qualsiasi altra “merce”, vendendo beni e servizi (non entro nel merito, qui, della produzione di risorse attraverso le attività finanziarie) che sono la missione fondamentale delle imprese.
Quindi se vogliamo abbattere il debito pubblico e togliere dalle spalle delle generazioni future gli oneri dei quali ci e li stiamo caricando, occorre orientare gli investimenti straordinari che il Recovery Plan ci consente di fare in progetti che aiutino le imprese a creare ricchezza e lavoro. Questo è il primo parametro di selezione dei progetti. Più che uno Stato che faccia, uno Stato che aiuti a fare.
Non si tratta né di sovvenzioni alle imprese, né di assistenza ai lavoratori sotto forma di sostegno ai redditi, che in casi particolari va anche fatto, ma di impegnare le imprese in progetti che, contemporaneamente, ammodernino il paese e producano nuova ricchezza e lavoro.
Ad esempio un grande progetto di digitalizzazione del Paese, dalla diffusione totale della banda larga, alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, compresi comparti cruciali come quelli della formazione (dalla materna, all’Università), della sanità, della giustizia, i quali oltre che produrre ricchezza e lavoro per le imprese di quel settore, sono cruciali per mettere in moto altre imprese e nuova occupazione. Oltretutto la diffusione capillare della digitalizzazione e il superamento del digital devide è un pezzo fondamentale della transizione ecologica (ambiente ed energia).
Lo stesso discorso vale per i grandi progetti di infrastrutturazione del Paese, soprattutto a sud. Che possono accelerare l’adeguamento non solo del sistema di viabilità e mobilità applicando più elevati standard di sostenibilità e sicurezza, ma anche di quello riguardante il risanamento idrogeologico e la messa a norma degli edifici pubblici a cominciare dalle scuole. Scuole e Università moderne e interconnesse alla rete sono un requisito indispensabile alla crescita non solo culturale, ma anche economica.
Cosa voglia dire questo per Roma è facilmente intuibile. L’attuazione in sede locale di un piano nazionale di infrastrutturazione digitale e fisica potrebbe prevedere, in primo luogo, l’esecuzione di un grande progetto di manutenzione ordinaria e straordinaria della città (primo: far funzionare al meglio quello che c’è), con interventi sulle scuole e gli edifici comunali; il completamento di alcune “incompiute” riguardanti la viabilità e la mobilità (anello ferroviario e non solo), un grande intervento sull’accessibilità pedonale e ciclabile che preveda l’abbattimento delle barriere architettoniche, anche come sostegno alle attività turistiche. Solo per fare un esempio.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda la riprogrammazione del servizio di trasporto pubblico locale e la “chiusura” di un ciclo dei rifiuti da rendere autonomo su base regionale. Tutto può essere previsto in un’ottica europea che, contemporaneamente, migliori la vita dei romani e aiuti a crescere il sistema territoriale romano puntando sugli asset industriali (aerospaziale, biotecnologico, farmaceutico, audiovisivo etc.), quelli dei turismi (culturale, congressuale e sportivo), della formazione e della ricerca.
Il secondo rischio da evitare è darsi al “riciclaggio” di vecchi progetti, in sede nazionale e locale. Quando leggiamo che si starebbero selezionando i migliori tra oltre 600 progetti “nazionali” cresce la preoccupazione che la maggior parte di essi, non potendo essere stati elaborati negli ultimi tre mesi, siano la riserva di vecchie idee messe insieme per fare “volume”. Molte saranno ancora valide, altre da rivedere, altre no. Quasi tutte dovranno essere comunque rispondenti sia agli assi strategici che il governo proporrà, sia alle logiche e alle procedure di valutazione, ex ante ed ex post, della Commissione Europea. D’altro canto questo disallineamento progettuale è quello che non ci consente già oggi di spendere tempestivamente tutti i fondi strutturali europei.
Anche il Comune di Roma soffre di questo gap progettuale. Sarà necessaria una verifica del bilancio comunale e dei precedenti piani di investimento per decidere cosa valga la pena di confermare e quanto, viceversa, dovesse risultare obsoleto. Questo potrebbe liberare risorse allocate su progetti che risultassero superati dal tempo. Per non replicare i limiti del passato quando, per fare in fretta, si rispondeva al governo – che chiedeva di finanziare progetti “cantierabili” subito – inviando progetti decotti.
Roma deve potersi dotare di un portafoglio progettuale preliminare, non solo per quanto riguarda la trasformazione urbana, ma anche per l’efficientamento dei servizi, a prescindere dall’esistenza o meno dei relativi stanziamenti in bilancio, per essere pronta a rispondere alla “chiamata” europea o nazionale, con proposte attuali. E per intrecciare un dialogo concreto che promuova la partecipazione pubblico – privato.
Anche per questo servirebbe che Roma aprisse, fin da ora, una interlocuzione diretta col governo per condividere i termini della ricaduta positiva del Recovery Plan. Una condivisione che non può che partire dal costruire una visione nuova e comune del ruolo di Capitale di uno Stato che deve cambiare nell’ottica europea. Ma sappiamo che questo compito non potrà essere assolto da Raggi per i suoi limiti politici, culturali e operativi. Quindi le forze riformiste, in primo luogo Italia Viva nazionale e romana, dovranno trovare il modo di interloquire con la città e col governo in forme anche originali.
Cosa significa essere Capitale d’Italia nell’Europa e nel mondo del XXI secolo?
Siamo certi che questo sia un problema secondario rispetto alla sempre più indispensabile riforma dello Stato e della Pubblica Amministrazione? E, pensiamo che i romani non debbano pronunciarsi su come la loro città debba svolgere il ruolo di Capitale che condiziona così tanto la loro vita quotidiana?
Roma è un giacimento di grandi risorse umane, competenze professionali ed eccellenze imprenditoriali. Un potenziale positivo restato inutilizzato negli ultimi anni, ma che nei momenti di crisi ha sempre saputo contribuire positivamente quando chiamato da forze politiche animate da una visione concreta del bene della città. Quelle forze ci sono e possono unirsi, e siamo certi che Italia Viva farà la sua parte senza alcun impaccio per chiamare e valorizzare il contributo di idee e di lavoro della parte più viva della città.
(Umberto Mosso)