Roma è una città che ciascuno incontra come sente e come può.
A differenza di tante metropoli europee, non ha una impronta uniforme che connoti il nostro incontro, ma piuttosto una serie convulsa e al tempo stesso morbidissima di luoghi, linguaggi e occasioni in una stretta vertigine di differenze possibili.
La bellezza sovrumana, misterica e accecante delle opere, che si allunga attraverso le chiese per il centro, e improvvisa ritorna nella più cauta presenza delle chiese moderne, con minore impatto e maggiore aderenza col reale, tendendosi nell’intorno.
La rete degli alberi, dagli aranci alle cime dei pini marini, le fontane e i sampietrini, i mosaici e le colonne, l’arredo urbano dei writer, le voci vegane che si mischiano ai suoni soffritti e all’odore del sedano, al bianco del cicorione. Le fave e gli gnocchi, i ceci e il baccalà. Ed oggi, assurdamente, quell’umido filtrato e mascherato del fiume, dei fiumi, della foce e dei prati deserti vicini agli aeroporti. La stretta vicinanza dei tanti rumeni, la scomparsa dei polacchi, i colori folgoranti dei tessuti africani. La confusione bengalese delle verdure di Campo dei fiori che si arrossa d’arancio e di giallo papaya, e di verde avocado. Le radio che si fanno frammiste nei quartieri, come le donne, e gli uomini, e bambini e gli anziani.
Una città per comparti, che la sua separatezza dichiara se propone la sua sola magnifica arte, e gli spazi non trova per una sana restituzione ai colori del tempo.
In tutto questo, ieri, a Parco Shuster, nel grigio di un pomeriggio che piove quasi come piange, abbiamo dato il saluto a un compagno di avventura terrena, che come pochi altri portava il segno dell’autentico dell’uomo, quella quieta gentilezza che non perde mai fermezza e si trasforma in passione politica.
Era ieri, Roma, una città Covid oriented, con le sue distanze e i suoi divieti, con la sua salvaguardia fatta di auto a strisce, e di persone esposte. La presenza senza voci di canto che pure cantava l’affetto, l’esserci oggi, come si può. Con signorile eleganza, ad esempio, della foto che Antonella Melito ha postato sui social, con suo ciao. Il rigore dell’assenza che si fa argine intorno alle pareti del piazzale di San Paolo.Con la compostezza degli amici, dei parenti, e dei compagni di viaggio. Con la separatezza dei gruppi e la certezza di un abbraccio, sia pure non detto nei riti di carezza e di unione.
Ed oggi infine è domenica. E Roma è anche le pastarelle per tutti, la messa, ma anche i venerdì delle moschee, e lo shabbat in sinagoga. La fermezza laica delle piazze, e tutto ancora l’abitato del disabitare, e la cella della politica in una cella più grande che è il mondo.
Mi sveglio che la città non parla, non canta. Mi sembra come se persino le campane abbiano smesso. E tutti ci diciamo… del nervosismo, dell’urgenza, del voler passare oltre, senza sapere quale sia o possa essere da qui a quando, un confine superato. Un confino scontato.
E vedo quindi Pasolini che gioca a pallone, San Basilio che brucia i cassonetti, il deserto dei caffè. L’asporto del mondo fino a casa, l’accompagnamento di un amico, e di amici, verso una chiesa, da un ospedale, una casa, a qualcosa che non sappiamo, ma speriamo, o crediamo. A un domani illuminato e certo, e speranzoso e pieno di parole e di gesti, un semplicissimo domani che non lasci soli. E che ancora non capiamo oggi come dire. Se, dire.
(ng)



*La prima foto è dalla Storia Instagram di Antonella Melito, Presidente del Consiglio del Municipio Roma VIII, che spero non si dispiaccia per la citazione della sua foto, che ho trovato bellissima, e di forte sintesi dei sentimenti di chi ieri ha salutato Rosario Mocciaro e Parco Schuster. Amici antichi e recenti, che credono nella vita.
Nelle immagini anche il saluto di IV Municipio VIII e la foto scelta dalla famiglia per ricordare Rosario sui social.
La Redazione de LottangoloBlog era tutta lì, ieri, a salutare Rosario, come gli amici e i coordinatori di IV di VIII. La militanza è una forma di incontro vero, cos’altro, se no?