Abili a cosa?

Ci innamoriamo dei diversamente abili quando sono, almeno, Frida Khalo

Noi tutti amiamo, forse affascinati, la stampella della proprietaria dell’impianto sportivo de “La Signora della porta accanto di Truffaut”, l’autismo del protagonista di “Lars, una ragazza tutta sua” di Craig Gillespi, la confusione mentale della signora Tatcher nella solitudine dell’Alzheimer, che Meryl Streep così bene impersona in The Iron Lady. La tenerezza di Gwyneth Paltrow in “The proof”, per il padre con la mente che dirada, il coraggio stremato di Julianne Moore in Still Alice.

Eppure… noi non pensiamo che in termini di “norma” e “normalità”, salvo che non arrivi a riguardare noi, nel corpo e nella mente. Non solo non riusciamo a comprendere come una persona si senta, ma nemmeno a costruire luoghi e tempi e modi a misura del bisogno dell’altro.

Questo è vero nel vissuto ordinario, e si amplifica nelle situazioni bisognose di inclusione, fino a diventare barriera e muro. Cancellazione di identità. Ogni persona vive, abita il proprio corpo, lo porta nel mondo, e nella relazione con gli altri, e nei luoghi di apprendimento, socialità e sviluppo di sé, a partire da come è fatta. Con specifiche esigenze e specifiche ricchezze che l’esclusione spreca. Siamo il luogo di uno spreco continuo.

Così come quando rifiutiamo di ascoltare il pensiero divergente, o anche più semplicemente la rete delle voci e dei “pensieri” e vissuti, nella politica, nella famiglia, nei luoghi di lavoro e nella società, così anche, quando escludiamo dalla nostra attenzione attiva i diversamente abili sprechiamo e offendiamo la ricchezza, e le sue gradazioni di amore e colore. Persino ridurre alle sole barriere architettoniche il problema, è miope e distorsivo. Le persone hanno bisogni materiali, spirituali, sentimentali e culturali. Le barriere sono fisiche, infrastrutturali, logististiche, ma anche psicologiche, affettive, morali.

E’ assai arricchente vivere un mondo centrato sulle differenze e specificità, ma occorre una grandissima autodisciplina che ha un solo postulato d’origine: non possiamo mai dare per scontati i bisogni e le risorse dell’altro e dell’altra. Se impariamo a leggere in senso olistico e con empatia la mappa esistenziale dell’altr@, nella sua parte condivisa (cammino diversamente, ho bisogno di spazi, non amo essere toccato o guardato negli occhi, soffro in un luogo aperto, devo poterti toccare, non posso parlare se non con un amplificatore vocale, non posso usate il computer, sono ipovedente, non mi muovo da sol@, il mio cane è la mia guida,… e tantissimo d’altro…), solo allora non inviteremo a casa nostra, dove l’ascensore è piccolo, una persona che ha una sedia a rotelle più ampia delle porte, ma penseremo a un aperitivo in un locale a pian terreno.

Privilegeremo negozi, ristoranti, bar, musei, scuole, parchi, strade che non ostacolino, e cercheremo di non dimenticare che una persona diversamente abile usa il bagno tanto spesso quanto noi, ha bisogno di esprimersi quanto noi, e in alcuni casi richiede la preminenza dei suoi tempi e linguaggi, anche corporei. 

Non sapremo mai quale ricchezza viene al nostro pensiero, al nostro vivere elle nostre capacità sentimentali dall’incontro con tutto questo, con l’esercizio di una “attenzione attiva” che è il passo successivo all’ascolto. E’ il passo della restituzione di identità. Doveroso, morale, dovuto e necessario. Ci viene, dal mondo della diversa abilità, la ricchezza capace di farci “vedere il non ancora pensato”, sentire il non ancora “sentito”. Forza, possiamo farcela 🙂 siamo migliori delle nostre barriere 🙂

(N.G.)

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