“Tutti abbiamo servito tutti”: un Natale di volontariato per 4 detenuti
25 dicembre 2017 quattro detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova escono alle ore 10:15, per percorrere la strada verso la chiesa dell’Immacolata per servire i poveri, là dove la Comunità di S. Egidio prepara il pranzo di Natale. Accompagnati dai volontari della comunità, Maria Ferrari con il marito Massimo, arrivano i quattro detenuti, Antonio, Biagio, Daut e Massimiliano, che incontrano altre volontarie, Silvia, e Maria Cinzia Zanellato. Quest’ultima è anche il direttore artistico del teatro “Due Palazzi”. Tutti entrano in chiesa mentre è in corso la celebrazione della Santa messa natalizia. Oltre trecento persone partecipano a questo importante rito religioso. Alle ore 13:00 s’iniziano a preparare i tavoli dentro la stessa chiesa; un’ottantina di volontari, compresi i detenuti, sono impegnati ad apparecchiare i posti a sedere. Il mio nome è Biagio, sono uno dei quattro detenuti che hanno partecipato come volontari a questa meravigliosa iniziativa. È da tantissimi anni che non festeggiavo il Santo Natale in mezzo alla gente, per anni l’ho passato in cella chiuso dentro quattro mura, ricordo che nel 2014 la regista Silvia Giralucci era stata autorizzata a registrare un video-documentario dentro la mia cella del carcere “Due Palazzi”, per riprendere dei momenti nella giornata di Natale di un ergastolano nella propria cella. Nello stesso tempo altre telecamere riprendevano la mia famiglia a casa, per vedere com’è il Natale per la famiglia di un ergastolano. È stato un documentario triste, che ha fatto vedere dei figli che sono orfani di un padre che è ancora vivo. Oggi mi è stata data la possibilità di fare del volontariato per alcune ore, anche per una mia scelta, perché il mio pensiero è che ad ogni detenuto va data un’altra possibilità nella vita. L’occasione di fare del volontariato penso possa essere una di queste. Ti aiuta a comprendere dove hai sbagliato per la società, soprattutto venendo a contatto con la sofferenza delle persone. Può aiutare il detenuto a capire le proprie responsabilità nel suo reato, a riflettere sul fatto che fare del male alle persone é anche un modo di distruggere se stessi. Oggi poter offrire alle persone la nostra disponibilità ci fa sentire uomini. È un modo per restituire alla società qualcosa che le avevamo sottratto, vedere che noi possiamo donare anche una carezza, un sorriso, un gesto d’amore ci rende felici, di una felicità che non avevamo forse mai provato nella nostra vita. Cos’è stata questa giornata per noi? Ci è stato assegnato il tavolo n. 7; attorno ad esso una trentina di profughi senegalesi, della Sierra Leone, della Repubblica del Congo. Tutte persone fuggite dal loro paese a causa di guerre e conseguenti problemi di sostentamento. Non volevamo parlare della loro sventura che già conosciamo tutti, volevamo donargli un sorriso, un abbraccio, una speranza, parlare la loro lingua, il francese, aiutarli a nutrire fiducia e speranza. Gli abbiamo servito dei pasti caldi, della frutta, il panettone, alla fine dei regali che aveva confezionato la stessa Comunità di S. Egidio.”
(Biagio Campailla – Ristretti Orizzonti, 29 dicembre 2017)
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Biagio Campailla è un condannato all’ergastolo ostativo (che non prevede nessun beneficio carcerario), sulle cui spalle pesano due gravi condanne, tutte e due mortali. Campailla, infatti, fu ritenuto organico al clan mafioso dei Cursoti di Catania. Secondo la Procura etnea, sarebbe stato lui ad avere iniziato una delle tante guerre di mafia in cui fece assassinare suo zio, che si opponeva alle sue decisioni e stessa sorte toccò successivamente a suo cugino.
Biagio, che soffre di una grave malattia genetica, come sua sorella scomparsa prematuramente, venne arrestato giovanissimo, condannato dagli uomini alla “Pena di Morte Viva” (così è chiamato l’ergastolo ostativo, quello senza possibilità di liberazione) e dal destino a questa rara malattia.
Si era sposato appena quattordicenne, come accade forse ancora nel meridione. La sua famiglia, quattro figli e molti nipoti, risiede in Belgio da tanti anni. Biagio parla spesso dei suoi figli e dei suoi nipotini e gli dispiace che non potrà vederli crescere a causa della sua malattia. Quello che lo terrorizza di più è spegnersi lentamente fra sbarre e cemento. Ciò che fa più paura ad un uomo ombra, malato, è morire prigioniero, lontano dai propri familiari, spegnendosi lentamente come una candela.
Il 41 bis è una forma medievale di carcere duro. Probabilmente anticostituzionale. Ma quasi nessuno sa che esiste anche il 41 bis super, una forma di carcerazione ancora più aspra. I detenuti sono tenuti in isolamento pressoché totale, in celle buie e minuscole. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due metri e mezzo di lunghezza, uno spazio occupato quasi completamente dal letto, celle dove non arriva un raggio di luce, non si sente alcun rumore, nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Nessuna privacy né per i rari colloqui consentiti, né per l’altrettanto rara corrispondenza, nessuna possibilità di scambio con gli altri detenuti. Limitazione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, il più delle volte internati sottoterra.
Un 41 bis super per alcuni condannati al 41 bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro. Se già il 41 bis è al limite della Costituzione – nato come misura emergenziale sarebbe dovuto durare per un periodo limitato di tempo, poi diventato perenne grazie alla legge del 2002 con il governo Berlusconi e reso ancora più duro nel 2009 sempre con il governo di centrodestra – l’area riservata sospende completamente il dettato costituzionale. Sì, perché questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani presieduta dall’ex senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma.
Un 41 bis super duro al punto che l’amministrazione carceraria per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventare ed individuare per ogni detenuto isolato in queste condizioni, quello che nel gergo carcerario viene definito “dama di compagnia”, ovvero un altro detenuto da sacrificare per dare una parvenza di umanità. Cosa significa? Oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Tra questi sfortunati sacrificati c’è, appunto, l’ergastolano Biagio Campailla che arrivò al 41 bis dopo aver vissuto in un carcere dignitoso del Belgio. Ad un tratto del suo percorso detentivo, dal 41 bis “normale” fu messo nell’”area riservata”. Per dieci anni in isolamento totale, una minuscola cella priva di luce, proprio come sotto terra, come trattamento di “socialità”, al massimo incontrare l’altra persona assegnata come compagno e lunghi periodi in completa solitudine.
La condizione di isolamento continuo, protratta per anni, produce inevitabilmente un forte decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate solo con se stesso, privato di ogni forma di rapporto, oltre la finzione della socialità di cui si diceva sopra. Ciò pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti. Ad oggi l’unica forza politica che chiede apertamente, e lo fa da anni, il superamento del carcere duro è il Partito Radicale a cui dobbiamo il merito di non aver mai smesso di denunciare, in ogni sede, la degenerazione di un sistema che nel tempo ha visto solo peggiorare le forme di detenzione. Un regime di ispirazione vendicativa che non tiene in nessun conto lo spirito riabilitativo previsto dalla Costituzione e che scivola involvendosi, ad ogni crisi invocata sulla sicurezza del nostro sistema, verso forme aspre ed estreme prossime alla tortura.
E’ sacrosanto che i rei scontino la pena e che scontino gli anni di detenzione che meritano, così come stabilisce il nostro ordinamento, ma non è altrettanto giusto che espiino nei fatti, una pena supplementare non dovuta, e che il dettato costituzionale, che vede il detenuto come un soggetto da proteggere, perché affidato alle mani dello Stato democratico, venga disatteso in questo e nel punto in cui stabilisce che la detenzione deve tendere al recupero e alla riabilitazione del condannato anche nel caso in cui debba scontare il carcere a vita.
(MV)








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