Ospitiamo l’intensa, appassionata e inappuntabile lettera che Umberto Mosso indirizza a Sergio Staino in risposta alle considerazioni di Staino intorno alla persona e alla azione politica di Matteo Renzi. Nella sua lettera a Recalcati, uscita su La Stampa il 10 febbraio, Staino rispondeva, a sua volta, a Massimo Recalcati per il suo intervento Perché difendo Matteo Renzi, uscito, sempre su La Stampa, l’8 di questo mese.
Ringraziamo molto Umberto per aver scelto #LottangoloBlog come luogo di dialogo.
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Caro Staino,
Ho letto la tua risposta a Recalcati che difende Renzi. Tu ed io siamo della stessa generazione e abbiamo fatto tanta strada insieme. Per questo non riesco sorvolare sul giudizio che dai di un uomo che è tanta parte, come riconosci, della nostra storia comune.
Scrivi che Recalcati avrebbe “dimenticato di valutare il personaggio (Renzi) anche da un punto di vista umano e non solo sul piano dell’abilità politica”. E, inoltre, che “personalmente credo invece che la valutazione del carattere di un dirigente politico sia forse quasi più importante della valutazione sulle sue capacità strategiche o tattiche.” Aggiungi che da tempo hai “riconosciuto la giustezza di molte critiche di Renzi al governo Conte. E’ l’uomo che non va.” Un giudizio duro su Renzi, che va oltre la sua politica, che ritieni irrimediabilmente inficiata dall’uomo che è.
E, a riprova di quanto dici, citi fatti e circostanze che sarebbe fin troppo banale contraddire semplicemente testimoniandone versioni diverse dalle tue. A cominciare dalla dolorosa vicenda dell’Unità, cui fai un riferimento assolutorio per te, quanto ingeneroso per lui. E’ stato ampiamente già fatto. Resterebbe da sottolineare quanto sia stata fortunata la tua vita, che ti ha fatto incontrare la sentina di ogni pessima qualità, politica e umana, in una sola persona.
Io, e con me centinaia di migliaia di compagni in 54 anni di militanza ininterrotta, sempre dalla stessa parte, ho visto “intraprendenti volontà di mettersi in luce”, “autopromozioni”, “creazioni di clientele”, “assalti”, “tradimenti”, “spregiudicato cinismo”, “carrierismo”, “arroganza”, “tracotanza”, ripetute e aggravate dalla continuità nel tempo da parte di molti altri che, al confronto, i comportamenti politici di Renzi mi sono apparsi non solo del tutto ben motivati, ma adeguati, anche nella loro durezza, al livello di resistenza, pervicace e truffaldina, messo in atto contro di lui da un gruppo dirigente conservatore e dedito in primo luogo al culto del proprio potere sclerotico.
A meno che non si voglia, davvero, accreditare Renzi come “il giovane prodigioso”, prima, e un superuomo, poi, in grado di nascere, morire e risorgere per venti anni, mettendo ripetutamente nel sacco tutti, avversari ed amici, guidato solo dalla sua furbizia. Forse sarebbe il caso di fare un’analisi solo un po’ più realistica.
Renzi non è mai arrivato a nessun incarico, di partito o di governo, se non sulla base di un programma esplicitato in precedenza e di un consenso praticamente unanime del massimo organismo dirigente del PD, come nel caso dell’avvicendamento con Letta, o vincendo due volte, con percentuali bulgare, le primarie democratiche combattute lealmente.
Tu stesso riconosci “proponendosi come rottamatore, raccogliendo così con intelligenza tutta quella voglia di cambiamento che fremeva nelle fila dei nostri elettori.” E che “la voglia di innovazione, la voglia di cuore e di sentimento che albergava in tutta la nostra “gente” portò a Renzi la segreteria del partito.”, contro “il gruppo storico del partito che si rivelava ogni giorno di più incapace di capire la richiesta di cambiamento”.
Ai suoi inizi il giovane rampante “sparava cose giuste”, scrivi; “poteva mettere in moto dei meccanismi tali da far muovere la stagnazione politica che ci attanagliava da anni”, aggiungi. E oggi “l’uomo che non va” ha “la grande capacità di partire da considerazioni quasi sempre giuste e sentite nell’animo dei nostri militanti, proporle come obbiettivi e usarle come dei passe-partout per la sua carriera personale”, sottolinei. Affermazioni bizzarre, le tue, semplicemente considerando che tu stesso, se non avessi fatto carriera, non avresti avuto la possibilità di proporre a un grande pubblico il modo che ti è caro d’interpretare la politica e la vita.
Rispondendo in questo modo a Recalcati ne hai confermato la tesi. Quello che non si perdona a Renzi non è tanto la sua estetica, che è un argomento a buon mercato nel mare di superficialità nel quale si sguazza, ma la sua etica, che si preferisce travisare, distorcere, rimodellare ad uso conservativo da parte degli avversari, o consolatorio per chi non riesce ad abbandonare certezze ormai sfumate e insegue un sentore ormai svanito.
Scrivi “E’ chiaro che tutte le feroci critiche che (Renzi) ha fatto a Conte e a quella strana accozzaglia dei 5 Stelle sono più che giuste. Tutta la parte migliore del PD si è riconosciuta in queste denunce, ma il modo anti unitario, offensivo e arrogante con cui è stata posta la questione ha distrutto tutto, trasformando un’importante critica su cui bisognava convincere anche il nostro gruppo dirigente nella bandiera di un unico personaggio. Non è certo far politica questo.”
Quindi, secondo te, Renzi avrebbe dovuto “convincere anche il nostro gruppo dirigente” della giustezza delle sue idee. Ma cosa altro ha tentato di fare, per anni, ricavandone solo un tentativo di annichilimento, di riduzione al silenzio, superato solo dalla nascita, obbligata a quel punto, di Italia Viva?
Mi domando dove eri tu e dove erano quelli, se ci sono nel PD, che mentre Renzi faceva la sua battaglia, che ritieni giusta, non hanno detto una parola o mosso un sopracciglio per porre un mezzo problema al loro gruppo dirigente. E che ora, invece di rivolgersi a casa loro, continuano a dare la colpa a Renzi anche del deficit politico del proprio gruppo dirigente e di loro stessi.
Tu parli del cuore. Si dice di Renzi che sia uno con una grande, troppa fiducia in se stesso, al punto di derubricare questa sua caratteristica a presunzione. In realtà se si analizza il comportamento politico di Renzi si vedrebbe che il suo pregio, ma anche l’origine di alcuni suoi errori, sta proprio nel contrario di questa affermazione. Renzi è una persona che, prima di tutto, ha una grande, forse troppa, fiducia nelle persone.
La vitalità di Renzi, scambiata spesso per iperattivismo frenetico al fine esclusivo di ricavarne un vantaggio personale, in realtà non è altro che un moto alla continua ricerca delle soluzioni migliori per tutti. Accettando tutti i rischi che questa riposta fiducia nelle persone comporta, in una società lacerata socialmente e culturalmente incialtronita, nella quale la generosità, soprattutto se proveniente da un uomo politico, nel migliore dei casi è vista come ingenuità.
L’esempio lampante è stata la vicenda referendaria del 2016. In quel frangente Renzi raccolse la sfida e la ragione vera di quella che è stata definita “personalizzazione” fu, soprattutto, l’estrema fiducia che i cittadini avrebbero capito la vera posta in gioco. Una riforma dell’ordinamento istituzionale che oggi, nella pandemia, è risultata essere indispensabile.
Anche oggi la condotta di Renzi nella crisi di governo ha messo in conto la capacità di comprensione dei cittadini. Non a caso l’opposizione alla sua linea politica ha puntato tutto sulla incomprensibilità della crisi. Un tentativo, da parte degli avversari, di riprodurre la stessa reazione negativa del 2016. Con qualche successo nella prima fase, inutile negarlo. Poi miseramente fallita nel risultato politico. Ma ci sono state grandi differenze da allora.
La fiducia nella capacità di capire da parte dei cittadini permane, ma non è stata messa più al primo posto. Al primo posto per Renzi c’è stata la volontà di offrire al Paese una alternativa urgente al baratro incombente. A costo di rimetterci tutto. Una battaglia fatta solo di coraggio e idee, che smentisce, nei fatti, la ricerca di un vantaggio politico personale.
Stavolta, a differenza del 2016, l’impopolarità è stata prevista, messa anticipatamente in conto come il prezzo da pagare per dare una nuova e migliore opportunità di ripresa al Paese. Rinunciando a tutto quello che un potere omertoso e accomodante offriva a chi avesse fatto di quella battaglia una esclusiva questione di prezzo.
Cosa è tutto questo, caro Staino, se non cuore? Cosa può consentire ad un uomo di resistere all’incomprensione assoluta e agli attacchi più infami, se non l’avere a cuore cittadini che, forse, un giorno capiranno, ma che sicuramente da oggi hanno un grande motivo di speranza che era stato loro tolto?
Una ultima notazione.
Comprendo bene il tuo disagio politico, è stato anche il mio per lungo tempo, quando mi ostinavo a pensare che la forma attuale, quella del PD, fosse la naturale e positiva evoluzione di una nostra, certo indimenticabile, antica scuola. Da qui la difesa che fai di una idea di partito, sempre e comunque, come se il PD fosse l’erede della parte migliore di quelle idee.
Non è stato facile per me, e per tanti altri, dover riconoscere non già che quella scuola non ci fosse più, ma soprattutto che non aveva lasciato eredi degni di quelle parti migliori. Come avevamo detto di voler fare dalla svolta della Bolognina e via via fino alla fondazione del PD, alla quale ho partecipato col massimo della convinzione.
Il PD, come sosteneva Emanuele Macaluso, raccontandomi anche personalmente gli esempi lampanti, non ha niente a che vedere con tutta quella storia. Merita rispetto per quello che è, va trattato con onestà intellettuale e correttezza, per quanto ce ne lasci la possibilità. Ma senza alcun privilegio storico, per così dire. E senza alcun trattamento di riguardo, magari dettato dal cuore.
Il cuore da seguire è il nostro, il tuo, il mio, quello di milioni di altri, e oggi, proprio l’insegnamento di quella antica scuola, a me e a tanti altri ha detto di gettarlo oltre l’ostacolo che ci ha tenuti fermi, contro la nostra natura politica, per tanti anni.
Fraterni saluti, come si diceva una volta.
Umberto Mosso
(Nell’immagine in evidenza particolare della riproduzione della lettera scritta da Antonio Gramsci a sua madre Peppina Marcias il 10 maggio 1928 dal Carcere di San Vittore a Milano)