Avevo annotato fra i film da vedere, quando uscì e fu premiato, il francese “120 battiti al minuto”, un film sceneggiato e diretto da Robin Campillo fra il 2016 e il 2017. Qualche sera fa un carissimo amico ci scrive su whatsup dicendoci di averlo visto e di aver sentito che era uno dei più bei film che avesse visto sulla militanza.
Alla parola militanza, mi è rivenuta su tutta l’attenzione per il film, che ho finalmente visto poche sere fa. La storia è quella delle azioni di Act up Paris, fra la fine degli anni 80 e i primi anni 90, per ottenere attenzione da Mitterand, case farmaceutiche e operatori nel sociale sulla diffusione del virus HIV, sulla sua natura, e sulle politiche di prevenzione allora (come oggi) assenti. Il film è intimo e soggettivo pur mantenendo le sue caratteristiche di racconto di una esperienza collettiva e gruppale.
C’è una ragione se parto da qui, da questo film che si dovrebbe proiettare nelle scuole, nei circoli, nelle piazze. Ed è che contiene, direi anzi “canta” la bellezza di una esperienza basata su un bisogno comune che tocca insieme le persone, i gruppi, le emergenze, capace di trasformarsi in azione non violenta ma fermissima, ausiliaria, potente. Senza sperare in eccessive mitizzazioni, capace di parlare e di far parlare. Di unire e di differenziare. Di essere dunque una azione fortemente politica, partecipata, immersa. Con dentro la solitudine quanto la vicinanza, il dolore quanto la speranza. La vita quanto la morte. La modalità sessuata e corporea di pensarsi negli eventi.
Ora, se c’è un tema che mi assilla, da tanto, è quello delle ragioni di una militanza per me irriconoscibile se utilizzo un confronto fra quella parigina, abitata da persone fino allo sfinimento, e quella che vedo vivere oggi nei luoghi della polis, della politica, del plurale.
Sento parlare di continuo di storie personali di esponenti politici, di innovatori, di candidati. Sento parlare di presente, passato e futuro, di minoranze svantaggiate, di generi e di origini. Ma sempre, tutto questo, arriva come contraddizione là dove nella politica (fra chi la politica la vive nel microcosmo dei circoli, dei comitati, nel macrocosmo delle assemblee nazionali, delle giurisdizioni, dei luoghi di lavoro) le persone non si parlano, se non attraverso posizioni a tema, quasi mai.
Ora, magari posso avere una visione parziale, ma credo in che in questi tre anni pieni di ritorno alla militanza attiva di base, prima nel PD, poi in Italia Viva, mi sia capitato davvero raramente di porre un problema partitico a partire davvero dalle persone.
Ora, sarà che per me le persone vengon prima di tutto, credo di aver fatto il possibile, di farlo ancora, per cercare di prender posizione su qualcosa avendo sempre in mente i sentimenti umani, le parole personali, i vissuti, ma spesso ho la sensazione che la politica si giochi su tavoli diversi, e che fra chi poi ha potere di dire e fare, e chi rende vera una nazione e la vive, ci sia una spaccatura forte, troppo forte. Ovvero, un deficit di ascolto, una visione della politica come operazione di amalgama sociale di gruppi militanti (ovvero elettori e comunicatori agli elettori) a partire da una analisi e progettazione verticistica, non realmente in comunicazione forte con la sua base. Questo nel PD, e in qualche modo anche da noi, in IV.
E che, quindi, chi aspira davvero a comunicare con la sua base, debba fare uno sforzo davvero forte per ricreare una tensione e una passione che partono non dalle statistiche, dai numeri, dalle rilevazioni, dagli indirizzi nei casi milgiori, e nei casi peggiori da compromessi di favore, ma invece da una comunicazione continua, sempre non ambigua, orizzontale sempre sistemica.
La politica ha un suo fondamento nei leader carismatici, ma è tempo di pensare anche a delle leadership capaci di facilitare processi, generare collegamenti e coesioni, percepire visioni oltre che proporle. Se una cosa il tempo ha creato, ricreato, è la disparità sociale, il pericolo di sette, ordini e congregazioni di medievale memoria (ne vediamo tante nei presunti movimenti…), piuttosto che gruppi capaci di dialogo, dissenso, partecipazione e impegno.
Non penso sia più possibile credere in una nascita di movimenti, quelli che pensavamo possibili fra gli anni 70 e 90 non saprebbero più respirare fuori dall’asfittico sistema di analfabetismo emozionale e culturale che l’omologazione prima e l’impoverimento poi hanno reso dilaganti. Ha ragione Renzi, investire sulla scuola è il compito primario. Investire sull’accesso alla conoscenza, alla critica, al superamento degli schemi.
I partiti, la società, i gruppi, hanno investito negli ultimi decenni solo sul consenso ( a centro e a sinistra) oppure sulla comunicazione come manipolazione (nel caso dei populismi). E’ ora di ricominciare a investire sulla conoscenza, sulla scoperta, sul viaggio, sulla contaminazione, ed anche sul dissenso interno. Come risorsa di crescita e sviluppo, sulle scissioni come germe di futuro (è stata salvifica in fin dei conti quella di Italia Viva dal PD), sulle migrazioni come appello alla complessità, a non pensare in bianco e nero.
A riprendere le sfumature e le contraddizioni delle cose e delle persone per essere davvero profondamente umani, e quindi politici, incisivi ma soprattutto pronti a lasciarsi incidere per germogliare, e fiorire. E’ un secolo conservatore questo. Comportamernti come quelli di Teresa Baellanova vengono visti come omologati al leader quando invece testimoniano di una assunzione di rischio personale e politicissima. Peccato Draghi l’abbia considerata scomoda, a voler leggere le cose.
Ma noi, se siamo bravi, possiamo essere migliori del primo ventennio del nuovo millennio. Credo che Matteo Renzi sia un ottimo leader carismatico, capace di “leggere”, “far sentire” una visione e soprattutto attuarla nel concreto. Questo manca al PD, e manca in qualche modo persino ai movimenti.
Il vero passo avanti che ora a mio parere Italia Viva deve farlo aprendorsi alla base, facendo crescere personalità e visioni, aprirsi anche al dissenso interno. Fare della base una risorsa attiva.
Siamo piccoli ma cresceremo. E per crescere, ogni leadership carismatica deve saper essere leadership dialogante, delegante, facilitante. E per fare questo occorrono squadre dinamiche, coese e forti, ed anche, dalla base innanzi tutto, l’apporto di una linfa che dica la vita dei minimi, ma la dica davvero, e si facci ascoltare. Le grandi battaglie si fanno ai tavoli internazionali, ma anche fra i campi, nei negozi, nelle piazze, con il cuore grande di chi scrive sulla carta del pane.
(NG)
Nelle immagini Matteo Renzi, Teresa Bellanova, Ken Loach, I fratelli Dardenne e due immagini da Due giorni un notte e 120 Battiti al minuto.