Maria Rosa Cutrufelli dedica il suo ultimo romanzo, “L’isola delle madri”, uscito in piena pandemia, a Rachel Carson, una straordinaria biologa che, per prima, ci ha spiegato perché tacciono le voci della primavera. Nel 1962 Rachel Carson scrisse “Primavera silenziosa” considerato “il manifesto” del primo movimento ambientalista. Studiò come l’alterazione genetica attraverso i prodotti chimici sintetizzati costituisca la maggior insidia del nostro tempo e il più grande pericolo per la nostra specie, e come la sterilità sia strettamente collegata ai fattori ambientali.
Le vicende narrate nel romanzo, si svolgono in un futuro imprecisato dove due fazioni contrapposte “gli uomini della vita” e “gli uomini della scienza” si combattono violentemente e le vite di quattro donne, Kateryna, che viene da un Paese dell’Est, Livia, docente di archeologia e storia antica, Sara che ha fatto del volontariato lo scopo della sua vita e Mariama, che dall’Africa ha camminato per anni con le sue ciabatte infradito, convergono e si intrecciano per caso o per destino, chi per lavoro, chi per sfuggire ad una guerra, chi spinta dall’ondata emigratoria, su un’isola a sud dell’Europa, un’Europa desertificata dove tacciono le voci della primavera, dove la natura sta morendo e un morbo “la malattia del vuoto”, rende impossibile creare la vita, accomunate, tutte, da un problema: la possibilità o l’impossibilità di essere madri e la scoperta di tanti modi per esserlo.
L’isola è luogo reale e simbolico insieme, dove i miti sembrano sopravvivere, e nel sito archeologico presente sull’isola quello di Demetra e di Persefone, sua figlia, che viene rapita da Ade. Demetra abbandona l’Olimpo e si vendica decidendo che la terra non darà più frutti ai mortali così da provocarne l’estinzione. Solo il ritorno di Persefone sulla terra, per volere di Zeus, riporterà la primavera ed il risveglio della natura, ma a causa di un inganno di Ade, dovrà tornare nel regno dei morti, la natura sarà di nuovo brulla e disadorna fino a quando sei mesi dopo, potrà rinascere. Livia attratta dal sito, che già conosce, non riesce a sottrarsi al desiderio di tornare e riavvicinarsi a quel mito che tanto somiglia a quanto sta accadendo.
Quanto descritto in questo romanzo distopico, è già presente in varie zone del pianeta e come sostiene la stessa autrice: “Ho dovuto studiare il presente per potermi prefigurare un futuro, più o meno prossimo.”
Su questa isola, in mezzo al Mediterraneo, che potrebbe essere la Sicilia, c’è la Casa di maternità e Sara ne è la direttrice. Un centro di ricerca dove si tenta non solo di combattere “la malattia del vuoto” ma anche di creare nuovi ruoli tra donne, e costruire quella solidarietà, quell’unione forse mai raggiunta prima, la sola capace di dare una forza mai immaginata. E’ questa la speranza, l’inno alla vita che sale da questo romanzo, racchiusi nella voce e nella vita stessa di chi narra la storia, che si presenterà solo nelle ultime pagine, chiudendo il cerchio e mettendo insieme la capacità di conoscere ed accettare la propria storia e di riconoscersi nelle altre, unica strada per il futuro.
Gli enormi cambiamenti epocali, stanno mettendo in discussione tutte le nostre certezze, in ogni epoca è successo ed ogni epoca ha richiesto una trasformazione, ma oggi, accade tutto più velocemente, il cambiamento climatico legato ad un rapporto non corretto con la natura e la pandemia, ci hanno messo di fronte, forse per la prima volta nella storia, alla nostra fragilità di specie, ad una dimensione dell’ignoto molto ampia che ci spaventa, che non possiamo ignorare, non potremo tornare ad un prima ma accettare le sfide non più rimandabili che questo tempo ci impone ed affrontarle con tutto il nostro impegno prima che tacciano le voci della primavera.
(Maria Cristina Petrucci)