DOMENICALE
Oggi , per la comunità cristiana, è il giorno della Pasqua. Nell’esperienza di fede, il giorno in cui la resurrezione di Gesù restituisce una prospettiva alla missione umana. Tornare alla casa del Padre e lì trovare il riparo della Bellezza eterna. Dopo un’avventura, in terra, in una dimensione consegnata al corpo come per assolvere una missione di bellezza che preceda la bellezza ottenuta infine per sempre. Questo vivendo nella certezza della finitezza, del transeunte.
E’ questo accade, sempre nell’esperienza cristiana, attraverso l’assunzione di un compito, dare perché si possa passare la parola, la propria vita. Non senza paura, non senza rimpianto, non senza le lacrime della perdita piante da Maria e da tutti gli amici e nemici di Gesù (in fondo quante lacrime non dette avrà avuto dentro Pilato?).
Ora, l’esperienza di questo anno lunghissimo, nel quale la laicità ha dovuto fare i conti di continuo con la morte, e nella quale troppi addii sono stati versati, in solitudine, senza sostegno e con una cura che sola si è poggiata sul pensiero, con tanta solitudine e tremore, ci restituisce, nella Pasqua, domande e visioni.
Spesso, contenute dal nostro piccolo corpo con stupore, e in una qualche misura agghiaccianti.
Non pensavamo di dover recedere da quella festa di salvezza terrena che era la nostra fiducia nello sconfiggere il tempo, l’età, l’invecchiamento. la morte.
Di questo sconfiggere, con l’energia della modernità, fanno parte tante occasioni di esultanza della persona: far nascere, riparare il corpo, scambiarsene parti, sottrarsi alle rughe e alla fatica, guarire. Ed anche, procedere fra le cose del tempo, nel tempo della consapevolezza. Con la convinzione che sia questa, la consapevolezza, a risolvere e risolverci. Senza però poterci mai emancipare dal dolore dell’esistenza del tempo umano.
E’ stato, per me, un anno così diverso da qualsiasi altro tempo incontrato e patito, com-patito.Eppure di una ricchezza straordinaria.
Mai, davvero mai, come in quest’anno, ho potuto guardare le cose soltanto con amore, soltanto con stupore. La solitudine con cui persone amate ci hanno lasciati, l’onda ferma di calore e disperata assenza, che ci ha avvolto in tante perdite, vicine e lontane.
Abbiamo perso persone che hanno dato a tutti (artisti, scienziati, politici) e persone che hanno dato nella comunità più piccola, minuscola e fragile dell’esistenza familiare, amicale, locale. Ogni vita un valore inestimabile che è andato perduto nella paura profonda, irrisolvibile, di tutti, di essere nelle mani di un altro, di qualcos’altro.
Mi è sembrato di continuo di dover mettere in conto una inespressa violentissima ferita, che ogni giorno fa davvero fatica a rimarginarsi. Contornata dal bisogno genitoriale di portare in salvo la percezione di un dopo, di un territorio bonificato dall’incertezza. Per i propri figli, per i figli di ciascuno e ciascuna. Per noi stessi e noi stesse nel sentimento del futuro.
Ho dovuto salutare zio Fausto, Simonetta, Eliana, Eleonora. E i tanti altri e altre che non sono stati nella mia giornata, ma pure erano lì, come me, nell’esperienza del mondo. Nella libertà di sentirlo e viverlo con libertà e definendone il senso.
Così anche, ho visto qui, nel perimetro del mio vivere, persone che hanno scelto di ridare la vita, come un dono insostenibile, come qualcosa di troppo complesso da vivere. E lo dico con commozione e comprensione profonda. Ho visto amici ed amiche soffrire per la distanza dagli anziani e dai malati nei luoghi di cura, e amici ed amiche farsi cura dell’altro. Ho visto persone trovare e smarrire la fede, e persone trovare e smarrire le parole.
Poco prima che tutto questo iniziasse, una persona incontrata nel dicembre 2020, ancora una volta grazie a un’amica, pensava con me, e proprio con S., sul tema della restituzione del corpo, in presenza di un dolore e di un danno troppo grandi da portare. Deliberatamente ostacolati nel diritto a lasciare andare la vita e tornare alla propria libertà di non essere più, con dignità e per scelta.
Era stato un dialogo che mi ha molto segnata, anche perché nato nell’alveo di una malattia invalidante che ha colpito mezzo secolo fa proprio mio padre, e dopo due sue fratelli. Avevamo pensato, io, G. e S., di parlarne nella sfera della riflessione politica e sociale sul diritto.
Poi, in quest’anno, ho visto il desiderio di vita insanabile in una persona carissima affetta dallo stesso male, la forza di vita, oggi, dell’amico incontrato, la riflessione profondamente autentica e condivisa con me e con altri nei giorni di ospedale di S., a cui la vita ha risparmiato il peso di una scelta.
Scelta comunque pesantissima. Per se stessi, per chi ci ama. Benché legittima, benché possibile.
Tutto questo mentre scorrevano i corpi soli da Bergamo a tutta quanto lo stivale. Povero e consumato da un passo troppo grave.
E infine, il 21marzo, su questo spazio, Marcello ha pubblicato la sua domanda, la sua richiesta, la sua speranza, di riproporre alla Stato questa domanda di libertà, di esercizio della consapevolezza di sé.
Non posso esimermi dal restituire a Marcello, e agli amici con cui ne abbiamo pensato, detto, sentito, il mio sentimento, di oggi e di sempre, su tutto questo.
Tre cose ho davanti agli occhi, provando a rimettere in riga, qui, tutto quanto io sento, faticosamente ma con forza.
La prima è lo sguardo delle persone che ho visto piangere i propri figli e padri. Figli e padri che avrebbero forse, per tante ragioni di imperfezione nella modernità della cura, desiderato di lasciare andare i propri corpi, e che hanno invece voluto risplendere di una vita meravigliosa nonostante la fatica, l’esclusione, il dolore e l’impossibilità di avere una cura vera.
La seconda è la ricerca del tempo della vita vera di chi ha trovato nel 41bis l’inciampo della ragione del mondo. Anche qui, anche questa volta, l’assenza di cura vera e la pretesa di un risanamento vendicativo. Ho pianto per ogni persona a cui sia stato detto o potrà ancora venir detto: fine pena mai. Ho provato la felicità più grande con chi combatte perché la vita anche in questo, in attesa che più non sia così, ci sia un significato profondo di rispetto di sé e di amore per gli altri.
La terza è lo sguardo di una fragilissima, nel corpo, Patrizia Cavalli. Che firmava, nonostante il covid e il rischio, immersa nel rumorio della Roma di Campo dei Fiori, il suo “Vita meravigliosa”. Non ho saputo che commuovermi e provare pudore davanti a quella forza e quell’amore. Mai disatteso dalla fatica del vivere.
E dunque, quale che sia la nostra condizione e convinzione, la nostra misura e la nostra idea dell’eterno (l’eterno nulla o la casa del padre, il nostro scioglierci o ri-comprenderci), non ho che poche e piccole convinzioni, ostinate come quelle dei bimbi, ad altezza di bambina.
Ognuno deve essere libero di interpretare e compiere l’esperienza umana come sente, come può, come sceglie di fare (quando può scegliere, senza che mai nessuno scelga ed operi in vece sua, in nessun senso). Lo stato deve tutelare e rendere possibile la libertà di ciascuno, e allo stesso, tempo difendere dall’arbitrio.
Il vero dono dato alla comunità cristiana non è tanto il ritorno dal Padre, da lì veniamo, lì torneremo. E’ piuttosto l’esperienza immensa della fallibile e fragile e immensamente bella esperienza umana. Fatta di arbitrio libero, di fallibile esperienza, di danno e di dono.
E’ questo il vero dono, purtroppo confinato nello spazio del tempo. Che ciascuno possa usarlo e determinarlo è il più grande e il più bel dono che anche per un cristiano possa essere ricevuto. Saprà comprendere, io credo, il nostro Dio, anche la paura, anche la rinuncia. Ma mai, io credo, potrebbe comprendere che all’uomo e alla donna sia negato il libero arbitrio, su cui si fonda l’esperienza del vivere, e senza il quale nemmeno il sacrificio di Gesù avrebbe senso.
L’esperienza cristiana non può che essere un infinito abbraccio, di qualsiasi espressione umana. Nessuna meno vera e possibile di un’altra.
Ecco, caro Marcello, questo sento. Ho scelto di risponderti oggi che è il giorno di Pasqua. la resurrezione è per me la speranza di una vita umana sempre fragile e potente, e sempre, sempre, sempre, accolta.
Nella libertà e nel rispetto di chi non si riconosce in questo abbraccio, ma esprime l’abbraccio che sente di voler e poter dare, a sé e agli altri.
Nessuno è colpevole. Nessuno ha un dono più grande che piangere la fine dell’esperienza umana, e festeggiare sempre la sua nascita. Comunque sia, comunque accada.
Buon Pasqua, da quest’angolo di case
Nerina
*Le immagini sono dal film Cuore Sacro di Ferzan Ozpeck
“L’originale comunque non lo voglio
non voglio stare dove ogni momento
se sbagli possono cacciarti via.
Lo preferisco falso e permanente
dove la legge la decido io.
Abolirò memoria e nostalgia,
non ci sarà intenzione né immaginazione
ma un’aria mite e ferma che acconsente:
si morirà per noia, dolcemente.“
(Patrizia Cavalli, Continuazione dell’Eden, in Vita Meravigliosa)
“Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con il peso delle mie preoccupazioni per il domani. Ogni giorno ha la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare… è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini…Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi….tocca a noi aiutare te e difendere fino all’ultimo la tua casa” (Etty Hillesum, in Francesca Serra, “la casa di Santa Ildegarda)