In una sala davvero deserta, in una Roma afosa e straniante, ho visto ieri “Marx può aspettare”, in proiezione in sala in contemporanea con la premiazione di ieri di Marco Bellocchio con la Palma d’oro alla Carriera, a Cannes.
Eravamo davvero in 4 (due coppie) sulla stessa fila della sala 1 all’Eurcine. A conti fatti una magia nella tristezza oggettiva di quel deserto, vedere al cinema, non proprio soli, ma con la presenza minuta e distanziata dell’Altro, in un silenzio sacrale, la pellicola personale, biografica, familiare e corale e pubblica ed epistemologica di Bellocchio.
Del film c’è tanto sulle pagine dei giornali di ieri e di oggi. Quindi qui una cronaca dei sentimenti provati, e dello stupore e meraviglia vissuti, come nella citazione finale “il mondo non finirà per mancanza di meraviglie, ma per l’assenza di meraviglia” (cito a mente).
Brevemente, per chi del film non sa, in quest’opera tutt’altro che minore ma per certo intimissima, Bellocchio dedica al fratello e gemello Camillo, che a soli 29 si tolse la vita nel ’69, questo suo “Marx può aspettare”. Nel tentativo di comprendere come sia potuta esistere, intorno a quella morte, una censura familiare (interiore e condivisa), alla luce di un tempo storico (le lotte e il marxismo) e culturale, e di una educazione cattolica ossessivamente sacrale.
Che la vita sia sacra si legge e ti legge in molti modi. E che togliersela sia per ciascun@ che ama il morente a se stesso un vissuto personalissimo e spesso invisibile, trasparente alla coscienza, emerge forte e struggente.
Il film è alla ricerca di come sia potuto accadere quel non accorgersi del dolore, del sentimento di fallimento e indeterminatezza esistenziale, che porta Camillo a spegnersi nella sua palestra che così poco lo rappresenta, lasciando dietro di sé domande scritte e portate in silenzio, senza alcun rancore ma con un sentimento di invisibilità che taglia il cuore. Questo cuore sacro che Bellocchio accarezza e disdice nei dialoghi, fra la perdita e il recupero che i suoi fratelli e sorelle tentano nel ricostruire con Marco la storia di Camillo e la trama del film.
Ha tutto senso, l’intersezione di archivi familiari e storici nelle immagini, le voci di oggi, ciascuna con connotazioni oniriche e realistiche insieme, il tono alto di Marco quando parla ai figli, così alto da risultare come un lungo grido e una carezza che non può arrivare. A Camillo. Ma che è a lì a dirsi ai figli come impegno a ri-conoscerli sempre.
La presenza meravigliosa di Luigi Cancrini, uno dei tratti più delicati del film (la comprensione analitica e calda), e quel Bellocchio che sembra essere e vedersi visto, dallo psicoterapeuta, come dal sacerdote di alcune scene seguenti, che ne con-dividono pena e scoperta e inciampo.
Le voci dei bambini, le grida dei bambini, che si fanno uomini e gridano ancora. La cecità materna che si spezza e dispera. Il viso delicatissimo, malinconico, sperduto e richiedente di Camillo, nelle foto del tempo e nel tempo.
Si esce dal film come toccati da una storia, così personale da essere intoccabile, e così pubblica e con-divisa da fare male. Toccati da quella grazia laica e irrisolvibile, e dall’idea della sorella sordomuta che dice di un paradiso, abitato da miliardi di anime e da Dio, nel quale in fondo, lei vorrebbe solo ritrovare, ricongiungersi a, il padre e la madre.
Una storia di cose non dette, di successi laici e civili e artistici, e di silenzi interpersonali, silenzi abitati anche, come un tarlo, dalle grida e dal dolore di un altro fratello già inquieto, che la madre tiene a sé e che abita la stanza di Camillo bambino, e l’inquietudine dei bambini e ragazzi tutti e tutte.
Sono uscita dal film con dentro la sensazione dolorosissima di accorgersi del proprio non vedere, e di come la scelta di morire accada sempre imprevedibile e disastrosa mentre noi non ci accorgiamo della dimensione del danno che ci vive accanto, e che non sappiamo né riconoscere né abitare. Di come ci sia sempre un compito già grande che ci sottrae al compito primario dell’accanto, del qui ed ora, della nostra sfera di affetti.
Se anche ce ne accorgessimo, forse nulla muterebbe nella storia individuale, ma forse, dico solo forse, anche no.
Marx può aspettare è un titolo straordinario, che consegna una lettera di Camillo a Marco alla dimensione epistemologica del vivere la vita compiendo scelte, includendo ed escludendo, rimanendo e andando via.
Abbiamo applaudito, nella sala deserta, noi 4, alla fine del film. Ed è stato prezioso quel nostro avvicinarci fra sconosciuti, uscendo dalla sala, per dirci del regalo che era stato vedere quel film, provare quel dolore e quell’amore. E del nostro amore per questa cosa che solo il cinema porta, in sala: essere con, riconoscersi come comunità amante, desiderante e sperduta.
Eravamo pieni di umanità, stupore, tremore e meraviglia. E credo che tutti e 4 si sia anche pianto, in silenzio, ciascuno per sé.
Una delle due donne della coppia che ha visto il film lì con noi ha detto: “e adesso dobbiamo proprio dirlo, fuori, di venire a vedere questo film”.
Andate a vederlo, al cinema, adesso.
(NG)
