Yoga, la malinconia e l’accesso al non pensato

La sintesi di quello che ho provato leggendo Yoga, di Emmanuel Carrère, è in una notazione piccolissima che l’autore riporta, secondaria a tutta quanta la narrazione, a proposito della lettura. Carrère dice, vado a mente, di essere divenuto nel tempo un lettore di poesia, piuttosto che di narrativa, o saggistica.

Ora, benché i punti di rispecchiamento di me lettrice potrebbero essere moltissimi, quello è stato il luogo di una identificazione pressoché totale, di una sospensione della relazione “io leggo ciò che tu scrivi”. Questa cosa ha a che fare, credo, con la percezione del tempo, con le energie fisiche e mentali, ma anche, sopratutto, con la ricerca del non pensato.

Perché, più di tutti, è questo ultimo punto che caratterizza la poesia: la capacità di far emergere il non pensato, e di costituire dunque, in qualche modo, una porta d’accesso all’infinito.

Di questo parlava anche Gordon Lawrence, nei suoi ultimi anni di vita, nelle ultime matrici di sogno sociale che ho avuto la fortuna di vivere con lui, di un accesso. Di una apertura ulteriore. Non una distopia, ma un attraversamento. Ora, il libro di Carrère, che sembra tutto dedicato a una precisa interrogazione sulla relazione controversa fra meditazione e pessimismo, fra individuazione e atarassia, è un libro in cui ci si perde, ci si immerge, ci si consuma (penso alle pagine sulle cure presunte a una depressione costituzional-garantista), Le parole hanno il loro segreto nella nudità di poche e salde certezze. Questa, sull’esser diventati lettori di poesia, ne è il piccolo cuore sacro, l’insinuazione del percorso.

Non dunque a curarci, a proteggerci, a denunciarci, a dirimerci, la consapevolezza di noi stessi, né la via della meditazione o della relazione, ma unica, intoccabile, non esprimibile eppure esaustiva, la via del sentire e del dire per-verso.

Ho portato con me, per questa pausa di pini e di laghi, un bel numero di libri di carta, alcuni ho persino acquistato qui, altri sono posati nel Kindle, con accanto i quaderni, le matite e le penne.

Sinora, solo Carrère ha preso piede e tenuto il passo. E con Carrère, qualche raccolta di poesie.

Ho avuto molta nostalgia di una matrice nel verde e azzurro dei rami, ma così è l’assenza, fatta di nostalgia e di vuoto.

Ho preso a prestito dai giorni il tempo per sentire la mia parte malinconica fremere al suono assente delle abitudini cittadine, molto ho desiderato le proiezioni nei cinema deserti del dopo (?) pandemia, o il chiacchiericcio dei ristorantini cinesi all you can eat.

Ho ripensato agli attentati a Parigi, alle perdite di noi tutti fra quel terrore e quello azzurro verde del covid. All’incremento dei luoghi di narrazione distopica come atto ultimo di onnipotenza del pensiero occidentale. Ed ho desiderato, come Carrère, un giaciglio per sentire tutto quello che non sta andando, che non può andare.

Ho celebrato con lui la perdita di innocenza della psicanalisi, il trionfo della serotonina in onore a quel Houellebecq a cui manca la tenerezza sfinita di Emmanuel Carrère.

Quella che Carrère ha de-scritto nel suo primo libro, amato e sofferto, compreso e atteso, quel “La settimana bianca” che ho letto anni fa alla sua uscita nello stesso tempo di incontro con un altro libro che non posso dimenticare, “Il dolce domani” di Russel Banks. Un’altra storia di immensa perdita di vite, e di innocenza.

A conti fatti, credo sia stata un’ottima scelta quella di riprendere qui, e terminare, la lettura di Yoga, senza di essa sarei un po’ più disarmata di fronte alla tristezza, e un po’ meno desiderosa di sentirmi bene.

E fra poco, ritornerà settembre.

(ng)

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