La scuola cattolica è il film, da poco nelle sale, che Stefano Mordini ha diretto su sceneggiatura sua, di Massimo Gaudioso e di Luca Infascelli, dal libro omonimo di Edoardo Albinati. Quando uscì il libro, e vinse lo Strega, lo presi senza riuscire a leggerlo. Non per le dimensioni (del resto sfidanti) ma piuttosto per paura di un impatto emotivo troppo forte con un periodo e una storia individuale (due storie individuali) che nella lontana Cosenza avevano segnato, quando avevo 10 anni, il mio immaginario su Roma, sulla sua comunità adolescenziale di destra, sulla violenza contro le donne.
Come ho già narrato su Lottagolo, mi è capitato in più occasioni da quando vivo qui alla Montagnola di incrociare non solo la memoria (quella di Rosaria Lopez in un giardino di quartiere in cui vado spesso) ma anche, molto di recente, la memoria viva, solidale e ferita del fratello di Donatella Colasanti, conosciuto per caso in una manifestazione contro la violenza alle donne organizzata, fra gli altri, dalla nostra Cristina Petrucci.
Persona bellissima, Roberto, un militante nel dolore per la giustizia accanto alla sorella, scomparsa da qualche anno dopo aver combattuto e vinto una battaglia per “tutte” col riconoscimento del delitto di stupro come reato contro la persona, e non contro la morale.
Avevo letto e ascoltato commenti sul film che non avevo compreso fino in fondo, così sono andata a vederlo questo film, a tratti insostenibile proprio per l’understatement che mantiene sui temi strettamente politici (che sottendono e intridono, ma non sono i soli), e per la ferocia con cui invece ti porta in quella villa del Circeo, con la stessa sensazione claustrofobica di pericolo mortale che penso sia stata la compagna terribile di Rosaria e Donatella in quelle ore, e per Donatella forse ancora per tutta la vita.
Nel provare a ricongiungere i molti pensieri sparsi che mi abitano da ieri, voglio partire proprio dall’understatement che rivela, in modo incontrovertibile, come quella violenza ed abuso siano nati non solo da una visione cara alle destre di una minorità femminile, tesa a considerare il corpo dell’altro qualcosa da battere e abbattere, nella lotta fisicamente, nello stupro sessualmente, ma anche da una certa noncuranza della medio alta borghesia di quegli anni verso la verità delle emozioni e dell’etica, verso un opportunismo del vivere.
Dialoghi confusi nelle famiglie, indicazioni contraddette dai comportamenti, la religione cattolica eretta a baluardo non di una dimensione morale ma piuttosto di una connivenza formale nel coprire ed anzi, in fondo, nel lasciar sedimentare.
Ora, questa forma mancante di vicinanza, ascolto e restituzione di senso, non mi pare di molto dispersa nell’oggi. Con la sola differenza che oggi si trasforma in solitudine piena e suicidi in aumento sconvolgente fra i ragazzi ed i giovani adulti, o in rabbia sociale indirizzata non politicamente ma nelle logiche del branco indistinto, che assale la minoranza, la differenza, la specificità, la bellezza. I casi di cronaca che raccontano un Italia di aggressioni, femminicidi, discriminazioni violente, aggressioni di gruppo, sono innumerevoli, a volte seguiti dai suicidi degli aggressori.
Un panorama, insomma, se possibile addirittura peggiore, attestante un disaggio e una non conoscenza che passa da una classe sociale all’altra, da un quartiere all’altro. Fu quello del Circeo, io credo, indubbiamente un mattatoio conservatore e a-valoriale, un delitto maschilista e brutale, un rapimento fascista. Un anno dopo quel delitto Pasolini, anch’esso tanto marcatamente nato dagli stessi schemi distruttivi del bello (accanto a quelli di occultamento della verità intellettuale scomoda e arrischiante, nel caso di Pasolini).
Accanto a questo, i commenti paradossali che classificano il film come pornografico, o le censure che lo accompagnano, che segnano la difficoltà ad accettare la banalissima presenza di quell’orrore e l’infinita sofferenza che li accompagna quando si sostanziano sul corpo femminile. All’idea che il film sia pornografico, oppongo l’idea che nessuno potrebbe trovare neppur vagamente vicino all’idea del sesso un set che riproduce in modo così netto e devastante il disprezzo, la violenza e l’abuso di classe. La negazione della identità personale, e l’esercizio di pratiche sadiche pure e semplici. L’orrore di due corpi feriti e di due anime strappate alla loro dimora nel corpo martoriato di Rosaria e Donatella.
Ora, a che punto siamo, a quasi quarant’anni del massacro del Circeo? Non molto lontani io temo, non abbastanza distanti, non abbastanza consapevoli. Se noi questo film lo censuriamo, invece di capirlo, non facciamo che adottare la logica delle famiglie descritte: negare la storia, negare le evidenze, tacere sul danno.
Infine, una nota davvero soggettiva, legata alla vita qui. Non smetto di ripensare agli occhi di Roberto, con fra le mani i volumetti di poesie di Donatella Colasanti, il suo leggerle, il lasciarmi fotografare le foto dal libro, la delicatezza con cui parla della sorella, la forza con cui ha atteso che quest’anno, finalmente, si arrivasse a intitolare anche a Donatella un giardino del nostro municipio. Ed anche questa attesa, mi viene da pensare, è qualcosa da non sottovalutare nel pensare.
Perché forse, ancora oggi, alle donne tocca morire, per essere (quando accade) riconosciute, viste, ricordate e narrate. Non basta che, come Donatella, e come tantissime altre vittime di violenza e di abusi, se ne muoiano dentro.
Andatelo a vedere questo film, che non riesco a valutare con lo sguardo del cinefilo, ma che vivo con lo sguardo di donna. Con, oggi, la tenerezza dei passi in VIII, accanto a quelli di queste due donne così ferite. A quelli di Donatella, così coraggiosa.
(NG)
Ricevo da Roberto Colasanti e, ringraziandolo, aggiungo questa foto che ritrae Benedetta Porcaroli, che interpreta nel film Donatella, accanto a Roberto Colasanti, e Letizia Lopez, accanto a Federica Torchetti, che interpreta Rosaria.
