Ho rivisto il bellissimo film The Interpreter girato dal grande Sydney Pollack nel 2005, interpretato da Nicole Kidman e Sean Penn. Un thriller di cui rammento sinteticamente la trama: Silvia Broome, interprete dell’Onu originaria di uno stato africano, ascolta per caso una conversazione in dialetto ku relativa all’omicidio del capo di Stato del Matobo, sua nazione natale e lei stessa entra nel mirino dei killer. A Tobin Keller, agente federale, viene affidato il compito di scoprire chi è veramente l’interprete e proteggerla. Il plot diventa molto intrigante quando i due personaggi si rendono conto che, pur lontanissimi nella vita, sono entrambi segnati da terribili lutti.
Quello che più amo di quest’opera di Pollack sono i dialoghi soprattutto quelli dell’interprete femminile nei passaggi in cui dà una impensata e struggente versione di giustizia, incentrata sul tema della vendetta e della sofferenza per la perdita violenta di una persona amata. Il film fa vivere, da dietro le quinte, i diversi modi di elaborare un lutto, ma anche quanto siano inaffidabili le apparenze. Su ciò che è o diventa il contrario di quello che sembra.
Da una parte Silvia, che, nello sviluppo del film, pare abbia superato il conflitto interiore tra la vendetta e la consapevolezza che la vita è imperfetta, attraverso la quiete e la pace dell’anima, ma che poi trasformerà drasticamente il suo sentire fino a provare il massimo della rabbia. Dall’altra Tobin, invece, che partendo dalla direzione contraria, otterrà dal confronto con una diversa ed opposta visione e cultura una riflessione ed una guida per superare quella rabbia che lo teneva in ostaggio. A volte, i sentimenti forti non sono ciò che sembrano.
Ecco le parole di Silvia che rappresentano una bellissima metafora sulla vendetta. “Chiunque perda una persona desidera vendetta su qualcuno, su Dio se non riesce a trovare nessun altro. Ma in Africa i Matobo e i Ku credono che l’unico modo di estinguere il dolore è salvare una vita. Se qualcuno viene ucciso un anno di lutto finisce con un rituale chiamato ‘la prova dell’uomo che affoga’. Per tutta la notte c’è una festa accanto a un fiume; all’alba l’assassino viene messo su una barca, portato fino al largo e gettato fuori, è legato così non può nuotare. La famiglia del morto deve fare una scelta: può lasciarlo affogare o raggiungerlo a nuoto e salvarlo. I Ku credono che se la famiglia lascia che l’uomo affoghi avrà giustizia ma passerà il resto della vita nel lutto. Ma se salva l’uomo, se ammette che la vita non è sempre giusta… proprio quel gesto porterà via il dolore”.
Ascoltando queste parole mi sono tornate in mente l’intervista allo scrittore Carmelo Musumeci, in regime di libertà condizionale e attivista per il diritto dei detenuti con condanna di ergastolo, o con ergastolo ostativo, a una pena sostenibile e quella all’Onorevole Rita Bernardini che si è sempre occupata delle condizioni e dei diritti dei carcerati, entrambe pubblicate su lottangolo.blog nel mese di dicembre 2020, dalle quali è emerso, contrariamente al sentire comune, che crede il nostro un regime bonario e poco severo, l’orrore di alcune forme di pena che sembrano dettate dal sentimento di vendetta più che da quello di giustizia.
Così dal lontano mondo di un paese africano sicuramente arretrato come quello dei Matobo e dei Ku, che non ha ancora conquistato i diritti civili delle grandi democrazie occidentali, che vantano secoli di storia e di progresso, arriva un esempio di giustizia che ci fa quasi vergognare pensando in quanti Stati della “più grande democrazia del mondo” (USA) vi sia ancora la pena di morte e che in Italia (nel cuore della civilissima Europa), vi sia ancora l’ergastolo ostativo e il 41 bis, a prescindere ed anche in antitesi col perdono dei parenti delle vittime.
(MV)