Un Natale per gli irredimibili

“Tutti abbiamo servito tutti”: un Natale di volontariato per 4 detenuti.

Prima di aprire il nuovo anno, ci è sembrato opportuno un repost che rimane di grandissima attualità, purtroppo. Anche nell’anno che viene l’impegno di tutti noi, ne #LottangoloBlog, sarà per una società più giusta, plurale e democratica.

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…… quattro detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova escono alle ore 10:15, per percorrere la strada verso la chiesa dell’Immacolata per servire i poveri, là dove la Comunità di S. Egidio prepara il pranzo di Natale. Accompagnati dai volontari della comunità, Maria Ferrari con il marito Massimo, arrivano i quattro detenuti, Antonio, Biagio, Daut e Massimiliano, che incontrano altre volontarie, Silvia, e Maria Cinzia Zanellato. Quest’ultima è anche il direttore artistico del teatro “Due Palazzi”. Tutti entrano in chiesa mentre è in corso la celebrazione della Santa messa natalizia. Oltre trecento persone partecipano a questo importante rito religioso.

 Alle ore 13:00 s’iniziano a preparare i tavoli dentro la stessa chiesa; un’ottantina di volontari, compresi i detenuti, sono impegnati ad apparecchiare i posti a sedere. 

Il mio nome è Biagio, sono uno dei quattro detenuti che hanno partecipato come volontari a questa meravigliosa iniziativa. È da tantissimi anni che non festeggiavo il Santo Natale in mezzo alla gente, per anni l’ho passato in cella chiuso dentro quattro mura, ricordo che nel 2014 la regista Silvia Giralucci era stata autorizzata a registrare un video-documentario dentro la mia cella del carcere “Due Palazzi”, per riprendere dei momenti nella giornata di Natale di un ergastolano nella propria cella. Nello stesso tempo altre telecamere riprendevano la mia famiglia a casa, per vedere com’è il Natale per la famiglia di un ergastolano. È stato un documentario triste, che ha fatto vedere dei figli che sono orfani di un padre che è ancora vivo. 

Oggi mi è stata data la possibilità di fare del volontariato per alcune ore, anche per una mia scelta, perché il mio pensiero è che ad ogni detenuto va data un’altra possibilità nella vita. L’occasione di fare del volontariato penso possa essere una di queste. Ti aiuta a comprendere dove hai sbagliato per la società, soprattutto venendo a contatto con la sofferenza delle persone. Può aiutare il detenuto a capire le proprie responsabilità nel suo reato, a riflettere sul fatto che fare del male alle persone é anche un modo di distruggere se stessi. Oggi poter offrire alle persone la nostra disponibilità ci fa sentire uomini. È un modo per restituire alla società qualcosa che le avevamo sottratto, vedere che noi possiamo donare anche una carezza, un sorriso, un gesto d’amore ci rende felici, di una felicità che non avevamo forse mai provato nella nostra vita. 

Cos’è stata questa giornata per noi? Ci è stato assegnato il tavolo n. 7; attorno ad esso una trentina di profughi senegalesi, della Sierra Leone, della Repubblica del Congo. Tutte persone fuggite dal loro paese a causa di guerre e conseguenti problemi di sostentamento. Non volevamo parlare della loro sventura che già conosciamo tutti, volevamo donargli un sorriso, un abbraccio, una speranza, parlare la loro lingua, il francese, aiutarli a nutrire fiducia e speranza. Gli abbiamo servito dei pasti caldi, della frutta, il panettone, alla fine dei regali che aveva confezionato la stessa Comunità di S. Egidio.”

da un articolo di Biagio Campailla sulla rivista “Ristretti Orizzonti”.

Biagio Campailla è un condannato all’ergastolo ostativo (che non prevede nessun beneficio carcerario), sulle cui spalle pesano due gravi condanne, tutte e due mortali, quelle del così detto 41 bis super. 

Il 41 bis è una forma medievale di carcere duro. Probabilmente anticostituzionale. Ma quasi nessuno sa che esiste anche il 41 bis super, una forma di carcerazione ancora più aspra. I detenuti sono tenuti in isolamento pressoché totale, in celle buie e minuscole. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due metri e mezzo di lunghezza, uno spazio occupato quasi completamente dal letto, celle dove non arriva un raggio di luce, non si sente alcun rumore, nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Nessuna privacy né per i rari colloqui consentiti, né per l’altrettanto rara corrispondenza, nessuna possibilità di scambio con gli altri detenuti. Limitazione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, il più delle volte internati sottoterra.

(Marcello Veccia)

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