Venite a Roma ogni volta che potete e, quando arrivate, non perdete l’occasione di visitare gli Studi Cinematografici di Cinecittà. Dalla Stazione Termini, sarà la Metro A a portarvi, in un baleno, a pochissimi metri dall’ingresso.
Non sarà solo l’occasione di vedere i teatri di posa, come il mitico studio “5” di Fellini, o le grandi scenografie all’aperto, costruite e modificate nel tempo per girare Cleopatra, Ben Hur, C’era una volta in America o Gangs of New York, ma anche di conoscere la storia del cinema attraverso reperti, documenti, immagini, esposti nell’annessa Mostra. La storia degli anni d’oro del cinema italiano che si imponeva al mondo che definiva Cinecittà la “Hollywood sul Tevere”.
Cinecittà suscita tante emozioni differenti e non ci trovate solo un bel museo, entrate in un corpo vivo, un luogo di lavoro e produzione culturale, del tutto speciale. Per comprendere appieno la magia di Cinecittà e avvertire la presenza del genius loci che soffia tra i pini dei suoi viali, può aiutare conoscere un elemento costitutivo dell’identità della città che la ospita e che determina, per entrambe, uno dei loro principali caratteri distintivi.
Anche se siete interessati solo al cinema nato qui, vi consiglio di assumere, innanzitutto, un punto di vista su Roma che vi porti a guardare Cinecittà non solo come la fabbrica dei sogni, nata dalla volontà propagandistica del regime fascista, superata la quale si è trasformata in un capitolo unico della nostra cultura contemporanea. Guardatela ora come un giacimento di segni fisici ed emozioni prodotti da quell’elemento costitutivo dell’identità della città.
Si è studiato e scritto molto sulla identità di Roma. Spesso con superficialità, soprattutto riguardo a quella contemporanea. Per molti intellettuali, in specie quelli venuti da altri luoghi e in alcuni casi come costretti a farsi o non farsi “romani” per avere successo, Roma è una scenografia disegnata dalla loro, personale, storia di vita. Un palcoscenico ostile o accogliente a seconda della loro sorte.
Chi pensa di contenere Roma non ha capito che è Roma che lo contiene. Chi la vive sarà sempre un suo contenuto. E’ questa la lezione che traggo da Jep Gambardella, un “contenuto” che vorrebbe, forse all’insaputa dei suoi stessi inventori, farsi contenitore. Il che non è detto sia un limite. Basta esserne coscienti e raccontarla con lo stesso rispetto col quale lo skipper affronta il mare e l’alpinista la montagna. Rispetto e amore critico, come per una madre a volte assente, perché troppo presa di sé ma, nell’essenza, indispensabile e appassionata.
L’elemento costitutivo dell’identità di Roma, dunque, è l’essere il luogo dell’amalgama degli opposti. La sua capacità storica di riuscire ad integrare persone e cose diverse, spesso contrarie. Chi non capisce scambia questo per una sorta di disincanto che evita, per indolenza, il confronto faticoso tra le differenze e le scelte conseguenti. Come se ricomporre costantemente gli equilibri sociali, spesso lacerati, fosse uno sforzo da poco.
In questa città hanno convissuto per secoli patrizi e plebei, opposti e in conflitto talvolta sanguinoso, ma mai definitivamente distruttivo. A Roma, nel Rinascimento, le casupole dei popolani venivano costruite accanto ai grandi palazzi delle famiglie nobili e ai muratori che costruivano quei palazzi era consentito di segnare in modo indelebile la loro presenza lasciando sulle facciate asimmetrici disegni geometrici usando i diversi toni dei mattoni. Li potete vedere sulla facciata di palazzo Farnese, dove la creatività alta di Sangallo e Michelangelo si amalgama con quella “bassa” dei manovali, in una sovrapposizione urtante per l’estetica paludata. In realtà un segno indelebile della dialettica tra nobili e popolo accettato da entrambi.
Questa è la città dove osti, fornai e barcaroli proclamarono la Repubblica del 1849 insieme ad intellettuali liberali, nobili dirazzati e poeti garibaldini. Dove borghesi e operai combatterono uniti contro il fascismo e l’occupazione nazista senza distinzioni di classe. E’ la città che accoglie, in uno dei quartieri tra i più comunisti e anticlericali, la benedizione di Pio XII, il Papa più apertamente anticomunista, dopo il bombardamento di San Lorenzo. E quell’accoglienza, certo segnata dal dolore, non fu una chiamata a raccolta dettata dalla paura, ma il segno di forte unità della città intera.
Un amalgama, che caratterizzò fortemente anche la composizione sociale di ciascuno dei due grandi partiti di massa del secondo dopoguerra. In entrambe quelle formazioni politiche opposte, convissero cattolici e laici, l’intellettualità più impegnata e il plebeismo più ruvido, in una ricerca comunque comune di riscatto.
Dalla fine degli anni ’40 Roma accoglie intellettuali da tutta Italia, così come si apre alla più numerosa emigrazione interna, implementando quel suo carattere identitario insieme colto e plebeo. Da quella amalgama nascono opere letterarie e cinema nuovo. Grande cinema, che trova naturalmente il suo laboratorio in Cinecittà.
Questo è ben reso in molti film. Da “Bellissima”, del 1951, di Luchino Visconti, a “Una vita difficile”, del 1961, di Dino Risi. Nel primo, oltre ad Anna Magnani e Walter Chiari, la protagonista è Cinecittà, con le sue figure più celebri e quelle meno note, tutte prese dalla realtà. Nel secondo, insieme gli straordinari protagonisti Alberto Sordi e Lea Massari, prende la scena Roma e il suo turbinare degli opposti nella centrifuga della storia.
Non si tratta solo di registi e sceneggiatori da Oscar, il lavoro a Cinecittà brulica di artigiani e maestranze tra le più professionali al mondo. Lavori manuali fortemente creativi, senza i quali non si illumina lo schermo.
Un set cinematografico a Cinecittà o negli spazi aperti del centro e della periferia romana, restituisce la rappresentazione viva di quell’amalgama che a Roma si perpetua da secoli, in forme e modi sempre diversi e nuovi, che segna la sua unicità a fronte dell’uniformità globale.
Cinecittà è il luogo dove il cinema nasce ad opera di mille mani levatrici a volte persino inconsapevoli di quell’identità che possiedono per nascita o che acquisiscono coinvolti dal genius loci. Chi vive a Roma dopo poco diventa romano. Perfino i parlamentari leghisti, a condizione che non si sappia in giro.
“Civis romanus sum”, l’affermazione di Paolo di Tarso può esprimere, ancora oggi, in circostanze meno drammatiche, il carattere distintivo dell’identità della città. Quell’amalgama che a Cinecittà mette insieme la creatività del genio di Fellini, Leone, Scorsese, la sapienza tecnica più raffinata di un grafico informatico di Tor Bella Monaca, con le soluzioni a martello, due chiodi e una cantinella di un falegname di Casalbertone o quelle ad ago, filo e una pezza di una sarta del Prenestino, spesso fatte all’impronta e risolutive: “famo così dottò? Sì, famo così” , risponde un maestro dando un vezzo romanesco al suo accento.
Se venite a Roma andate a Cinecittà, e passeggiando tra le scenografie e nei viali guardatevi attorno con uno sguardo d’insieme, pensando a quanto gli elementi distintivi dell’identità culturale di questa città abbiano contribuito, col linguaggio cinematografico e anche nella lingua, alla diffusione della nostra migliore identità culturale nel mondo.
Lo sguardo che vi propongo di avere su Cinecittà vi darà la prova delle meraviglie che nascono amalgamando gli opposti. E scoprirete così anche quell’elemento fondamentale dell’identità di Roma, che non si deve perdere nella smania di chiudere e respingere, come sostengono i ridicoli tribuni conservatori e nazionalisti. Roma non l’ha mai fatto.
(Umberto Mosso)