Incappo, in questi giorni, in un programma del primissimo pomeriggio Rai. Si sta parlando della commedia musicale di Red Canzian su Giacomo Casanova.
Ascolto incuriosito, da appassionato lettore di tutta la produzione letteraria del veneziano, e mi aspetto, come al solito, che si sgrani il rosario dei luoghi comuni.
Uno in particolare, il più falso e ottuso, che sovrappone la maschera di Don Giovanni all’uomo Casanova, come se la prima fosse sinonimo del secondo. Cosa che accade puntualmente da sempre e in studio, infatti, tutti parlano dell’una e dell’altro come fossero la stessa cosa.
“Io che ho lo spirito di Don Giovanni”, dice la conduttrice, mi sono sempre identificata in Giacomo Casanova. E tutti annuiscono e intervengono su quell’onda.
Così vado in rete per cercare notizie sull’opera di Red Canzian. Stessa solfa, Casanova era un Don Giovanni.
Per carità, soprattutto in tempo di guerra cosa può importare al pubblico di capire che il personaggio Don Giovanni e la persona Casanova rappresentano due mondi opposti? Ho la conferma che in questa epoca complessa il bisogno di semplificazione si traduce in banalizzazione. Sembra che il mondo preferisca che gli si racconti una bella bugia piuttosto che una verità difficile da capire. Nessuno sa più distinguere una cosa da un’altra e perfino gli intellettuali non aiutano a farlo. Sarà mica compito mio? sembrano dire.
Così, navigando, scopro che tra poco uscirà un film di Gabriele Salvatores liberamente tratto dal racconto “Il ritorno di Casanova” di Arthur Schnitzler. Non scrivo del film, che non ho visto e che dovrebbe essere un buon film a giudicare dai precedenti di regista, cast e collaboratori affermati.
Penso, invece, al racconto di Schnitzler che ho letto quando, attorno alla trentina, mi innamorai di Giacomo Casanova al punto da leggere tutte le sue opere. Compresi i dieci volumi dell’Histoire de ma vie e la maggior parte delle cose scritte da altri su di lui.
Il racconto di Schnitzler mi irritò molto. Perché, da appassionato lettore di Casanova come narrato “da sé medesimo” e fatta la tara del suo narcisismo, il personaggio che Schnitzler inventa, chiamandolo Casanova, non ha niente a che vedere col vero Casanova.
Si può sostenere che il falso Casanova dell’autore austriaco sia un buon espediente per rendere in forma letteraria la tesi psicologica che sottende il racconto. Rappresentare, cioè, la conquista amorosa della più giovane Marcolina come un test al quale Casanova si sottopone per dimostrare a sé stesso, ultracinquantenne, di non aver perso le sue capacità seduttive. Perciò sedurrà Marcolina, ma con l’inganno e questo gli darà la consapevolezza della perdita del suo fascino erotico e dell’avanzare della vecchiaia.
La morte della cicala, che vince un’ultima volta sulla virtù della formica solo col sotterfugio in una notte buia.
Nel 1917 la lettura, pruriginosa per l’inclita che se ne avventurava e densa di riflessioni psico – esistenziali per il colto borghese agli albori della psicoanalisi freudiana, fu molto apprezzata ed evidentemente lo è ancora oggi, per la capacità, si disse, di introspezione psicologica che Schnitzler fa dell’animo di Giacomo Casanova, un archetipo usato per raccontare le criticità, fisiche e non, degli uomini alla soglia della vecchiaia.
Peccato che l’archetipo sia falso. Come analizzare la psicologia di Putin, già che ci siamo, per proporre l’analisi introspettiva di un prode combattente per i diritti umani.
Un esempio sbagliato quello di Casanova, perché la realtà storica, psicologica, umana infine, del veneziano non dà alcun appiglio alla fantasia di Schnitzler, se non con una forzatura che sarà pure funzionale al miglior prodotto letterario e alla divulgazione delle tesi psicologiche dell’autore ma, mi chiedo, perché scempiare a questo fine l’immagine di un uomo realmente esistito raccontandolo come non è mai stato? Perché non usare un testimonial ugualmente evocativo, ma più in sintonia con la tesi psicologica da affermare? Come Don Giovanni, per l’appunto.
Casanova amava le donne e la sua seduttività affondava nella voglia, che manifestava loro apertamente, di conoscerne l’animo prima che di penetrarne il corpo. Di godere lo spettacolo della scoperta, anche da parte delle donne, dei loro desideri più riposti, spesso inconfessati, incoraggiate da un uomo come lui, che voleva capirle e che ripagavano volentieri con la stessa moneta.
Non c’era alcun inganno. Semmai, in qualche caso, un gioco di reciproci nascondimenti, tacitamente condiviso, per il gusto nel differire il piacere che, di certo, si accorderanno.
Nei suoi racconti amorosi c’è sempre condivisione e un grande rispetto per l’animo e la dignità femminile. Senza fare differenze tra una prostituta e una gran dama. C’era amore, insomma, tanto o poco, per lungo o breve tempo, ma pur sempre amore.
La maschera di Don Giovanni, al contrario, è quella di un collezionista, spinto alla conquista del corpo femminile dal suo narcisismo. Un personaggio che non ha nessuna considerazione delle donne che seduceva, considerandole oggetti da mettere in un catalogo e passare oltre. Ricordate l’elenco di Leporello? Il vero archetipo del maschilismo della specie peggiore, con quel tanto di funereo che caratterizza l’animo dei collezionisti di donne.
Lui sì che avrebbe architettato l’inganno che Schnitzler inventa per Casanova. Il quale non avrebbe mai accettato, forse anche per orgoglio, i favori di una donna che non fossero indirizzati alla sua persona. Niente inganni da parte di Casanova, attrezzi del mestiere di Don Giovanni, che viene punito dal Commendatore non per la quantità dei suoi peccati, ma per la loro qualità disumana.
Da Ponte non è meno immaginifico e persino pedagogico di Schnitzler. Non sapremo mai cosa avrebbe scritto di Don Giovanni se avesse conosciuto Freud come lo conobbe Schnitzler, ci delizia il suo incontro con Mozart.
Non critico preventivamente il film di Salvatores, che non ho visto. Conto, invece, sulla sensibilità e la grazia che il regista ha sempre avuto. Leggo, tuttavia, in alcune brevi di stampa sul film in uscita, che infatti già alcuni critici scrivono di Casanova come sinonimo di Don Giovanni. Un grave errore, che non solo falsa la storia di una vita avventurosa, intensa e appassionata, che non rende giustizia all’esistenza di un uomo geniale.
Si continua, come Schnitzler, l’abuso della sua esistenza per altri scopi. Come Fellini con la maschera del suo Casanova, un Arlecchino grottesco, dai sentimenti più oscuri, incollati sull’animo come pezze a colore.
Si può dire che Casanova sia un uomo dello schermo ideale, dove le turbe adolescenziali irrisolte si incontrano con le pruderie senili disincantate. Un modo per mantenere, con compiacimento, le une e le altre. Abbasso il piacere libero, libertino e liberatorio, insomma, ed evviva il godere l’ora d’aria del nostro, piccoloborghese, ergastolo ostativo erotico. Ognuno si salvi come crede, d’altronde. Compreso Schnitzler, Fellini e chissà quanti altri ancora.
Ma l’opera intellettuale, per suscitare emozioni e ulteriori pensieri, non nasce anche dal confronto tra le cose? A nessuno è mai venuto in mente di cogliere la ricchezza delle differenze tra Casanova e Don Giovanni?
La vecchiaia di Casanova non fu rattristata dalla perdita del suo potere seduttivo, come inventano Schnitzler e i suoi epigoni attuali, ma dalla coscienza della fine di un mondo che, con la rivoluzione francese, chiudeva anche la sua vita. Una fine che, tuttavia, Casanova accolse con malinconia, ma non con la rabbia e la voglia di rivalsa, fino all’inganno, dello sconfitto.
La sua fu una malinconia attraversata perfino dall’ironia di chi, avendo come lui vissuto da conservatore pubblico grandi sovversioni private, era a volte attraversato dal dubbio che il nuovo mondo avrebbe forse compreso meglio del vecchio la sua modernità.
Che delusione avrebbe se sapesse che i nostri contemporanei non lo riconoscono e la sua complessità, tra pregi, difetti e contraddizioni, è banalizzata in un archetipo che, evidentemente, li rispecchia di più.
Il ritratto cinematografico più vero dell’anziano Casanova, è quello di Ettore Scola ne “Il mondo nuovo”, con la splendida interpretazione di Marcello Mastroianni, dove c’è molta verità nell’immaginazione.
Non sono della scuola di Zdanov e guardo le opere del realismo socialista incuriosito, a tratti divertito come fossero fumetti di un Paz conformista. Comprendo il valore, comunque, della produzione artistica che, per rappresentare una idea e suscitare una emozione, non deve, se serve, fotografare la realtà. Nel caso del realismo socialista, poi, una realtà del tutto immaginaria.
Immagino, da quello che leggo, che il film di Salvatores sul “Ritorno di Casanova” sia lo spunto per una storia contemporanea, raccontata col pretesto di Schnitzler, sulla suggestione di Schnitzler. Un ottimo spunto, nonostante il viennese.
Mi chiedo quanto di affascinante e intrigante ci sarebbe da raccontare, con più Casanova e oltre Schnitzler, sulla curva della vita verso la vecchiaia vissuto nel tornante della storia che stiamo vivendo.
E’ forse troppo presto per capire l’una e l’altro?
Vedrò il film con piacere, come sempre Salvatores e tutto ciò che riguarda Casanova. Ma, come immaginario avvocato d’ufficio del Cavaliere di Seingalt, in questo confronto tra immaginari, cambierò, per me solo, il titolo del film. Lo chiamerò “Il ritorno di Casanova, ovvero i turbamenti del vecchio Schnitzler”. Per un dovere verso le storie opposte di Casanova e Schnitzler e in omaggio ai titoli lunghi di Lina Wertmuller.
Non pretendo che sia, la mia, una buona operazione di marketing, ma vi assicuro che non toglierà niente alla metafora contemporanea. Anzi le aprirà un mondo narrativo e di pensieri attualissimi che gli autori contemporanei, in questa epoca di riduzione dal complesso al banale, non hanno forse neanche intuito si possano rappresentare.
Meglio confermare lo stereotipo di lusso del vecchio viennese, che liscia il pubblico per il verso del pelo?
Nell’attesa leggete Giacomo Casanova, Arthur Schnitzler, guardate il Mondo Nuovo di Scola e, comunque, tornate al cinema e al teatro.
(Umberto Mosso)
















