Il paradiso in terra

Quello che viviamo ogni giorno è il più grave urto alle certezze che si viva per tutti i nati dopo il boom del 900. Ogni più lieta idea di sorti progressive si dissolve, ed i modelli che emancipavano il sociale, proposti dalle dottrine di origine marxista, non bastano da tempo a dare al mondo ipotesi di crescita per tutti.

Alle idee di progresso, di diritto, di accesso, si son sostituite in questo tempo bellico e pandemico, quelle della sopravvivenza, dell’assistenzialismo, e della dipendenza e dell’oblio del desiderio.

Solo la nuova, di generazione, quella Z (ben aggredita da nostri solitudine e virtuale ma a tutto questo resistente) ci rappresenta la speranza di una visione priva di pregiudizio di nove ed ottocento. Questa sarà capace, forse, di ideare [da qui a poco?] nuovi modelli di vita e di sviluppo. Questo, quando non resti preda della nostra profonda opera di dis-educazione, nutrita a colpi di ideologie morenti e valori non più capaci di render nostro il tempo.

Un deficit nel pensiero filosofico e politico ci rende fragili ed esposti. Siamo così obsoleti da riconoscere soltanto la guerra delle armi, mentre non ci accorgiamo che oltre a salvare un popolo invaso e sterminato, quello Ucraino, dovremmo anche accorgerci e vedere la vera guerra che si sta giocando, pesantemente, altrove.

Privi di leve che consentano a noi stessi di creare, ad esempio il lavoro, rischiamo di sottometterci supini a quelle economie ben auto-consistenti e emergenti, e al disvalore che portano con sé: contrattazione e sicurezza nel lavoro inesistenti, maschilismo, efficientismo e omofobie dilaganti, la strage dei diritti, il non rispetto del bisogno di sviluppo, di crescita, di sogno.

Vincere in Russia significa non abdicare al nostro sfinimento, non abdicare a modelli di vita inanimati. Non essere, di nuovo, schiavi.

Guardo con attenzione a chi davvero sa innovare, a chi dimentica i suoi sogni liberali e quelli tardo comunisti, mi appello alle regole fondamentali dell’innamoramento, del riconoscimento, della cura, del dare indipendenza e del diritto, dell’arte nuova, del sentimento libero del sacro, della magia del quotidiano, della prossimità, della pietà e della com-passione.

Alla complessità irriducibile che siamo, al dovere che abbiamo di seppellire il passato e ritrovare un’idea nuova di futuro, e prima ancora, di questo, un sentimento.

Non bastano davvero le categorie che ci costringono a pensare nella ripetizione, occorre rivoltare da dentro la giacca che vestiamo, cucire scarpe a mano, se serve andare a piedi scalzi. Occorre riconoscere chi siamo.

Non si vogliano architetti, si vogliano creatori. Di case e chiese, di piazze e giardini, di scuole e di ritrovi. Una musica nuova, un nuovo modo di dirsela e di dire. Un fare.

Siamo capaci di tutto questo? Vogliamo vivere ancora?

Allora sì che un albero, un fiume, un mare e un sole e un vento possono farci da bussola e timone, ma il mare, per davvero, dobbiamo essere noi. Capaci di maree, fondali, vortici e tsunami, ma solo, davvero solo, a fin di bene.

Che la parola bene cominci tutti i giorni, in ogni luogo, e non contenga le venature di uno strenuo e cieco pacifismo, ma un senso del dovere e del diritto alla democrazia nei popoli.

E per far questo, occorre edificare, occorre ripiantare, e dirselo che siamo zoppi, malandati ed orfani di 900.

Ci mancano i filosofi, ci mancano i poeti, ci mancano i maestri. Abbiamo solo, temo, burocrati della politica, burocrati dell’arte.

Allora, dico, rimbocchiamoci le maniche, ognun@ dove può, e dove sa. Non deleghiamo, ma eleggiamo dove serve chi ha occhi di futuro pieni, e passo lieve e bello.

Osiamo essere e volere un pensiero giovane, il non pensato, l’infinito.

Solo così, ne usciamo.

(Nerina G.)

Pubblicato da Nerina Garofalo

Photographer - Personal coach - Narrative thinker Consultant

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